Dal numero di gennaio 2009 di "Difesa Adriatica"
La seconda metà del 2008 ha cambiato molte cose. Anzi quasi tutto, rimarcando la svolta iniziata con settembre del 2001. Nel nostro piccolo anche noi, come organizzazioni di esuli giuliano-dalmati che operano nella realtà del nostro tempo, dobbiamo saper cambiare.
Perché l'alternativa è adattarsi o sparire.
Tra la metà degli anni Novanta e oggi abbiamo saputo farlo abbastanza bene. Abbiamo colto un flusso storico-politico portando a casa qualcosa di significativo: le leggi sulle case popolari e le pronunce delle magistrature che ne sono seguite; le leggi per la tutela del nostro patrimonio culturale sia per noi esuli sia per quelli che chiamiamo i «rimasti», senza i quali chi va in Istria non troverebbe più nulla di italiano se non le vie e le piazze dei centri storici risparmiate dai bombardamenti del 1943-'45; una leggina modesta come la 137 del 2001, che comunque è stata apprezzata dai suoi destinatari con tutti i ritardi che le associazioni hanno cercato di accorciare; ma soprattutto la legge istitutiva del Giorno del Ricordo, un traguardo storico quasi unico in Europa e impensabile dieci anni prima. E sarebbe difficile ottenerla oggi, nel rinfocolarsi della polemica politica anche sugli argomenti più futili e passeggeri.
Manca ancora la soluzione dei problemi patrimoniali: restituzioni delle case da parte degli Stati successori della ex Iugoslavia e indennizzi da parte di uno Stato ladro che – non sapendo come uscire da una controversia bilaterale in cui l'arbitro, gli Stati Uniti, stava più di là che di qua – non ha saputo far di meglio che vendere a uno Stato comunista e infido i nostri beni, frutto del lavoro intelligente di generazioni, che avevano saputo trarre profitto da territori poveri e marginali facendo diventare le nostre città tra le più avanzate dell'Austria e dell'Italia della prima metà del Novecento. Trieste, Fiume, Pola, Zara o Abbazia erano molto più progredite di gran parte delle altre città dell'impero austro-ungarico e del regno d'Italia. Del resto ancora oggi il Nord-Est beneficia di quell'educazione e di quella forma mentis, facendone la locomotiva dell'export italiano.
Come è mutato lo scenario politico
E qui veniamo al punto più significativo dell'attuale fase di cambiamento. Se abbiamo ottenuto un appoggio bipartisan sulle nostre questioni, se le vicende delle Foibe e dell'Esodo sono entrate nella memoria della nazione e non si può più dire che non ne sa nulla nessuno, è perché si sono incontrati due interessi politici convergenti: quello della destra ex missina di diventare partito di governo, portando in dote quei valori di "patria" che aveva custodito per decenni ai margini e contro la cultura ufficiale, e quello della sinistra ex comunista di ridefinirsi come partito "patriottico" e nazionale, capace di rappresentare tutti gli italiani sanando le ferite della guerra civile del 1943-'45 e della guerra fredda. Presupposto di queste convergenze erano stati il crollo del Muro di Berlino e la successiva dissoluzione della Iugoslavia comunista.
Questo processo della destra e della sinistra italiane si è ora concluso. Potrebbero non avere più bisogno di noi per dimostrare la loro "italianità", lasciandola alle buone parole dei Presidenti della Repubblica. Se così fosse avremmo perduto i due punti di appoggio dei nostri successi tra il 2001 e il 2007.
Oggi i fattori determinanti della politica italiana sono altri: la crisi finanziaria internazionale e il federalismo fiscale, reso necessario dall'impotenza dello Stato unitario centralizzato a superare gli squilibri territoriali del Faese. La crisi economica aggrava i problemi di bilancio, influendo sulla disponibilità del governo ad incrementare i coefficienti della legge 137 o a trovare altre soluzioni soddisfacenti. Il federalismo potrebbe indebolire quel sentimento minimo di solidarietà e unità nazionale sul quale abbiamo sempre puntato per vedere riconosciuti la nostra fedeltà alla nazione, il costo umano e materiale dei nostri sacrifici.
In queste settimane è balzato in primo piano il cosiddetto "patriottismo federale", con una revisione del Risorgimento sia a destra (Bossi, Calderoli, Alemanno) sia a sinistra ( il "partito del Nord" di Cacciari e Chiamparino). Ne consegue l'unanime ammissione della crisi dello Stato unitario, che alla fin fine è all'origine delle nostre sventure di italiani del confine orientale.
L'Italia del 1861 è nata così debole da non poter difendere la nostra aspirazione a farne parte. Quando finalmente è arrivata da noi nel 1918 era troppo tardi e non sapeva nemmeno dove mettere le mani. Poi sono venuti il fascismo, la guerra perduta e tutto il resto. Ed è toccato a noi, giuliani e dalmati, di provare sulla nostra pelle, unici tra gli italiani, il paradiso del «socialismo reale».
Abbiamo celebrato il 90esimo della Vittoria e della nostra Redenzione. Chi più di noi doveva celebrarlo, sia pure con l'amarezza di avere perduto le nostre terre allora «redente»? Felici di diventare italiani nel 1918, abbiamo lasciato tutto per continuare ad esserlo quando l'Italia non ha saputo difenderle.
Nel 2011 si celebreranno i 150 anni dell'unità nazionale. Aveva visto bene Niccolò Tommaseo a non credere nello stato centralizzato dei Savoia. Come Cattaneo e Gioberti anche il nostro dalmata voleva un'Italia federale, rispettosa di quel "policentrismo culturale" e, conseguentemente, di quella diversità di prospettive di sviluppo economico e sociale che egli aveva individuato nella sua lungimirante visione della patria che amava. Anche Cavour del resto la pensava così, tanto da affidare a Marco Minghetti una proposta federalista, che fu respinta in commissione parlamentare nel 1861 per l'opposizione della sinistra ex garibaldina.
Deleteri gli schemi desueti di cinquanta o trentanni addietro
Se questo è il nuovo quadro dobbiamo saperci inserire con intelligenza politica nella nuova prospettiva che impegnerà le forze politiche italiane nei prossimi anni: da un lato articolare il Paese in entità regionali o macroregionali per dare risposta ai problemi concreti del territorio, dall'altro salvaguardare l'unità complessiva dello Stato per fronteggiare con la forza necessaria la crisi economico-finanziaria con misure che solo lo Stato unitario può garantire. Di qui la necessità di far leva sui poli di eccellenza delle nostre associazioni, che sono da un lato i centri-studi e multimediali che hanno dimostrato la loro vitalità e il loro spessore scientifico riconosciuto da tutti; dall'altro le rappresentanze territoriali degli esuli, come i comitati provinciali della Anvgd, che si sono fatti apprezzare in varie città italiane, che sono poi i centri propulsori di quel policentrismo culturale di cui parlava Tommaseo: Genova, Torino, Milano, Firenze, Venezia, Trieste, Roma,Verona, Brescia e le altre città del Friuli Venezia Giulia e del Nord-Est in generale, che sono i luoghi di più alta concentrazione delle comunità degli esuli.
L'esperienza ci ha dimostrato che lavorano meglio le piccole strutture snelle ed efficienti, non impacciate da assemblearismi spesso confusionari, dove bastano minime divergenze di impostazione o di comunicazione per paralizzare ogni iniziativa.
Chi fa può sbagliare. Ma è sempre meglio di chi non fa nulla. Le divisioni interne che si sono verificate e che indeboliscono la rappresentatività esterna della Federazione non hanno nessun fondamento di pensiero o di programma. Ripetono schemi desueti di trenta o cinquanta anni fa che non hanno più nulla a che fare con la realtà italiana ed europea di oggi.
Insistere su quegli schemi è demenziale. Se è cambiata l'Italia dal 2001 ad oggi dobbiamo saper rispondere con una strategia adatta al 2009. Figuriamoci se adottiamo ancora linguaggi e parametri di giudizio del 1953 o del 1975! Chi non si rinnova è destinato a scomparire. E noi non saremo tra questi, perché non vogliamo lasciarci sfuggire le occasioni di successo che si presentano, lasciandoci velare gli occhi dalla nebbia dei piagnistei.
Lucio Toth, Presidente ANVGD