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Quale civiltà istriana nel Museo di Trieste? (Il Piccolo 24 gen)

LETTERE 

È in dirittura d’arrivo la realizzazione del Museo della Civiltà istriana fiumana e dalmata, un’opera sicuramente importante che opportunamente riempie un vuoto e un ritardo della città nel suo complesso, nel farsi carico della propria storia, nel saper riflettere sul proprio passato anche quando è difficile e doloroso. Questo museo potrebbe non solo restituire ai cittadini e ai viaggiatori il senso di una parte della memoria della Venezia Giulia, ma anche contribuire a far nascere un nuovo rapporto con la cultura italiana dell’Istria di oggi, dando un apporto a quella nuova fase nelle relazioni fra Italia, Slovenia e Croazia che anche dalle pagine di questo giornale si è proposta.

Vorrei solamente manifestare una qualche perplessità riguardo al nome che si è deciso di dare a tale, importante, istituzione. Il termine museo della Civiltà istriana fiumana e dalmata, infatti, fa pensare che si tratti di un Museo che contiene tutto quanto si possa mostrare di queste terre, mentre mi pare non sia così. Se non vado errato la sua collezione permanente sarà costituita fondamentalmente da ciò che resta delle masserizie che i profughi hanno abbandonato nell’ex Silos, allora trasformato in centro di raccolta, reperti interessantissimi ma proprio per le loro caratteristiche, parziali.

Si tratta mi rendo conto, di un’osservazione un po’ pedante, di carattere scientifico, ma a questa ne è collegata un’altra di carattere forse più sostanziale e riguarda il fatto che un nome simile sembra far intravedere che in quelle terre, nell’Istria, a Fiume e lungo la Dalmazia, non vi siano e non vi siano state nemmeno, altre «civiltà», cosa evidentemente non vera. È il termine civiltà che contiene un suo carico di ambiguità e che oggi gli studi storici e sociali ci consigliano di usare con molta precauzione, proprio per tutti i connotati di negazione delle altrui culture che può portare con sé. Una proposta minima che avanzerei è che si aggiunga l’aggettivo italiana al nome del museo, sarebbe un elemento di chiarezza in grado di fugare ogni possibile equivoco restituendo la parzialità di quanto conservato.

Se potessi, se avessi potuto, lo avrei chiamato Museo dell’Esodo, perché mi pare sostanzialmente di questo si tratti e forse la chiarezza dell’evidenza permette di restituire al meglio di cosa si stia parlando, cosa vorremmo preservare dall’oblio. Non credo,infatti, che la questione del nome di questa prestigiosa e necessaria istituzione culturale, sia una questione di secondaria importanza, il nome è la sintesi, in fondo, di ciò che noi vogliamo trasmettere ai visitatori, ai giovani; al tempo stesso un museo non è solo una serie di sale piene di oggetti ma anche un luogo aperto dove si fa cultura, si creano nuovi rapporti, dove a partire da una visione del passato si gettano le basi del presente e del futuro.

Dove gli oggetti possono parlare se ricollegati correttamente alla società, al mondo a cui appartenevano, che era una società complessa e ricca che sarebbe davvero un grave torto semplificare e negare nella sua pluralità.

Roberto Dedenaro

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