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L’ultimo tricolore di Pola (Il Piccolo 11 feb)

TRIESTE La storia di una bandiera diventa la storia di un popolo. Quella dell’ultimo tricolore ammainato nel 1947 da Palazzo Quinto della Marina militare di Pola dal vigile del fuoco Umberto Gherardi. Nato a Genova il 16 maggio del 1908 Gherardi approdò nella località istriana come marinaio di leva. Poi, dopo un periodo trascorso nel genio artiglieria, entrò nel 1943 nel corpo dei Vigili del fuoco di Pola. Fu lui che, sciolti i nodi che legavano la bandiera al pennone, la ammainò per riporla tra le poche suppellettili che riuscì a portare con se nell’esodo, imbarcandosi sulla motonave «Toscana». Un gesto istintivo, che non poteva prevedere le valenze storiche che impersonificava. Un gesto per togliere all’«invasore» titino il gusto di bruciare il simbolo di quel Paese che per anni aveva amministrato quelle terre.

Il figlio, Umberto anche lui di nome, ricorda quei tragici momenti. Aveva solo 9 anni, ma quegli avvenimenti lo hanno segnato per tutta la vita. Per una bambino lasciare la realtà dell’infanzia per rivolgersi verso un futuro fatto solo di incertezze non può passare senza traumi. «A Pola – racconta il figlio Umberto – mi ricordo che negli ultimi giorni stavamo sempre in rifugio perché c’erano i bombardamenti. Poi arrivarono i partigiani di Tito e per gli italiani cominciarone le vessazioni. Un vero inferno. Così mio padre decise di andarsene. Anche perché il suo lavoro di vigile del fuoco era irrimediabilmente compromesso».

Umberto, il padre, non ha, dunque, dubbi. Bisogna lasciare quella terra amata. Preso lo stretto necessario, conficcato nelle poche valigie legate con spago e le camere d’aria delle ruote della bicicletta, la famiglia Gherardi prende la strada del porto. Ma papà Umberto non dimentica una cosa per lui fondamentale, quella bandiera italiana con in centro il simbolo sabaudo. La piega con cura, la ripone in una scatola e la infila nelle valigie.

Comincia per la famiglia la storia di ordinaria follia dell’esodo. Al porto di Pola attracca la motonave «Toscana». «Era una nave – ricorda il figlio – ma il nome non glielo so proprio dire. So solamente che piangevamo tutti». I Gherardi trovano posto a bordo e con loro quell’ultimo simulacro dell’italianità dell’Istria. Quattro fischi di sirena e la motonave salpa. Gli ultimi abbracci tra chi se ne va e chi resta sono strazianti. Per il vigile del fuoco Umberto Gherardi, classe 1908 da Genova, però c’è forse un’unica consolazione: quella bandiera italiana sottratta sotto gli occhi dell’invasore titino.

Lasciato il porto di Pola la motonave approda a Trieste. «Non sapevamo dove andare – racconta il figlio Umberto – non sapevamo dove volevano mandarci». Sta di fatti che la famiglia Gherardi viene fatta salire su un vagone ferroviario. Destinazione vaga: Italia. E pensare che proprio dall’Italia se ne erano andati. Uno dei tanti paradossi della storia dell’esodo. Tutto risolto? Per niente, le umiliazioni peggiori dovevano ancora arrivare.

La tradotta degli esuli si muove in direzione Bologna. Il viaggio non è proprio quello di un’Eurostar. Una sorta di convoglio che poco aveva da invidiare a quelle che portavano i futuri internati nei campi di concentramento nazisti. Non uomini, ma animali che dovevano trovare una «stalla». Arrivati del capoluogo emiliano gli esuli, compresa la famiglia Gherardi, non possono credere a quello che sta succedendo. Una folla li attende sulle banchine della stazione. Loro aprono i finestrini. Hanno fame, forse qualche anima pietosa passerà loro un tozzo di pane e dell’acqua. Invece dalla stazione arrivano fischi, insulti, e sputi all’indirizzo di coloro che, per certa ideologia, rappresentavano uan sorta di traditori che avevano abbandonato la terra (l’Istria in mano a Tito) dove stava per realizzarsi l’utopia socialista.

Il vagone dove stava la famiglia Gherardi viene staccato dal convoglio e posto su un binario morto. Lì i suoi occupanti vegetano per giorni. Eppure anche a Bologna c’è qualche anima pietosa che porta loro qualche cosa da mangiare. La svolta per Umberto Gherardi viene dallo spirito di corpo dei Vigili del fuoco di Bologna che fanno uscire la sua famiglia da quell’inferno. I Gherardi proseguono così per Borgo Abbigiano per approdare finalmente a Roma dove il capofamiglia ritrova il suo lavoro di pompiere. Lavoro che in futuro sarà intrapreso sia dal figlio Umberto che dal nipote Fabio.

E la bandiera italiana? È lì, tra le poche suppelletili portate via da Pola. «Mio padre la ripose in un armadio – racconta il figlio Umberto – poi la diede a me e feci la stessa cosa con la speranza di poterla issare nuovamente sul palazzo da cui mio padre l’aveva ammainata. Speranza che, vista la realtà odierna, rimarrà per sempre tale». Poi la decisione finale. Il nipote Fabio dona l’ultima bandiera italiana di Pola al museo dei Vigili del fuoco di Roma. Un pezzo di stoffa tricolore che porta con sè la storia di un popolo. (m.manz.)

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