Sono trascorsi circa 60 anni. Un periodo che storicamente ha visto tramontare imperi, sorgere nuove nazioni, l’affermarsi e morire di rivoluzioni epocali. E finalmente, dopo un tale periodo di incubazione, nell’Anno del Signore 2004 le nostre Istituzioni hanno deciso di istituire il 10 Febbraio il “Giorno del Ricordo” per gli oltre diecimila Italiani massacrati nelle foibe (e non solo) dall’esercito partigiano comunista di Tito accomunandovi l’esodo di 350.000 Fiumani, Istriani e Dalmati.
Si è così rotto ufficialmente un silenzio che ha visto quali ossequiosi officianti tutti i Governi della Repubblica Italiana nata dalla Resistenza, da De Gasperi in poi, genuflessi sul “rispetto” dovuto ai loro compagni di viaggio di stretta osservanza comunista. Per decenni, parlare di foibe – e implicitamente scoperchiare l’orrore marchiato falce e martello – non era “politicamente corretto”, ché altrimenti avrebbe significato, sin dalla svolta di Salerno con Togliatti stretto collaboratore dell’espansionismo titino (con relative stragi annesse), la compartecipazione morale a tanta barbarie. Comunisti e cattolici, socialisti e liberali della “nuova Italia” impegnati nella spartizione del potere, non potevano evidentemente accettare elementi di disturbo nei confronti del cementato sodalizio politico nato dalla lotta antifascista.
Se Parigi vale una messa, una legione infinita di morti non doveva disturbare i manovratori. Anche perché, sull’altra sponda, quella dei “moderati”, potevano fare da contrappunto le precise complicità del Regno del Sud con Tito (contemporanee ai massacri) attuate attraverso aiuti militari di ogni specie, emblematica l’intensa attività svolta dalla Regia Aeronautica. Responsabilità precise, anche queste ultime e storicamente accertate, alle quali è stato dato un seguito ideologico alla fine delle ostilità con l’indegna accoglienza dei profughi Istriani e Dalmati (bollati platealmente come “fascisti”) e costretti per decenni in luridi centri di accoglienza, quali cittadini di inqualificabile serie.
Ora, di tutto questo, ossia di un autentico rivoltante marciume istituzionale, nel cosiddetto “Giorno del Ricordo” non si è fatto il minimo cenno, la Storia di lacrime e sangue gettata nella spazzatura, limitandosi alla esternazione di una pietas di facciata, classiche lacrime di coccodrillo a digestione avvenuta e a generiche ammissioni di “colpevoli ritardi” Una sorta di definitiva pietra tombale su responsabilità che bruciano e non concedono assoluzione. Ma non basta, ché il più “prezioso” sigillo alle esequie di un popolo è stato posto dal Capo dello Stato (certamente non il Presidente di tutti gli Italiani) che nella sua recente allocuzione celebrativa al Quirinale non si è fatto sfuggire l’occasione di rapportare il massacro delle foibe all’imperituro ricordo delle «responsabilità del fascismo per le sue avventure di aggressione e di guerra». In verità, un “sigillo” che non ha stupito più di tanto chi ricorda la sua trascorsa e impegnata militanza ideologica: Budapest docet. Come è risultato del tutto aderente al personaggio un suo riferimento al “Giorno del Ricordo” che, testualmente, «non ha nulla a che vedere col revisionismo storico …».
E qui mi faccio da parte e cedo la parola, per un conclusivo finale, a un passo di un articolo di Mario Cervi (certamente non accusabile di simpatie fasciste) che riassume egregiamente i termini della questione. Scrive Cervi rivolgendosi a Napoletano: «Mi permetto rispettosamente di obiettare. Ha a che vedere col revisionismo perché la storia di quel periodo è stata a lungo improntata a un conformismo di sinistra, è stata modellata secondo i canoni d’un “politicamente corretto” che più o meno assimilava i profughi istriani a sgherri in orbace. Il Capo dello Stato sa sicuramente che ai poveri fuggiaschi ammassati su un treno venne negato in piena estate, dai ferrovieri comunisti d’una stazione emiliana, anche un po’ d’acqua. Di revisionismo c’era dunque bisogno, ed è buon segno che quasi tutti se ne siano fatta una ragione. Stabilito che le foibe furono un orrore, e il trattamento subito dai profughi una vergogna, non c’è bisogno a mio avviso d’affiancare a questo riconoscimento, per renderlo accettabile, il rituale anatema contro il Ventennio. Evitando un ping pong polemico, alacremente praticato, secondo il quale ogni rievocazione di nefandezze comuniste deve avere un contrappeso in camicia nera».
Gianni Rebaudengo