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Una valigia e via: gli esuli a Bolzano (Voce del Popolo 28 feb)

Chi erano e che ruolo hanno avuto a Bolzano gli esuli dall'Istria e dalla Dalmazia. Come Alcide De Gasperi li trasferì in Sudtirolo per portare a compimento l'italianizzazione. E come sulle loro teste il governo italiano organizzò il più sporco affare del dopoguerra.
È rimasto chiuso in cantina per dieci anni, il grande armadio in noce della famiglia Negri. "È tutta la vita di mio marito…" sussurra la signora Wally. Dentro, impolverate, ci sono migliaia di schede anagrafiche, pacchi di corrispondenza, documenti dei Ministeri degli Interni e degli Esteri, della Repubblica Popolare Jugoslava, del Commissariato del governo di Bolzano. Tutto in ordine alfabetico, scritto nella calligrafia nitida del buon funzionario Alfredo Negri, classe 1904, per vent'anni dirigente dell'ufficio anagrafe del comune di Bolzano – lo stesso lavoro che aveva fatto a Fiume ai tempi dell'annessione italiana.

Una vita chiusa in un armadio

Era questa dell'armadio, però, l'anagrafe che più amava Alfredo Negri: quella dei profughi scappati dall'Istria, da Fiume e dalla Dalmazia tra il 1945 ed il 1947 e poi rifugiatisi qui, a Bolzano a cercare un'altra vita. Un'anagrafe che Negri compilava nel tempo libero in qualità di responsabile a Bolzano della "Associazione Venezia Giulia e Dalmazia'. Quanti erano? Lo schedario contiene solo i profughi censiti dopo il 1945. Un appunto del 1950 indica 472 capifamiglia più 1150 familiari in tutta la provincia. In realtà il mondo degli esuli doveva arrivare in Sudtirolo quasi a tremila persone. Tra questi, c'era anche Giuseppe Salghetti Drioli, padre di Giovanni. l'attuale candidato a sindaco di Bolzano. Discendente di una delle più antiche famiglie di Zara (Zadar), papà Salghetti fu chiamato al Ministero delle finanze di Roma e lì fu raggiunto nel 1943 dal resto della famiglia, fuggita dai bombardamenti.
Tra la fine della guerra ed il 1955 il capo del governo, il democristiano Alcide De Gasperi, fece di tutto per attirare in Sudtirolo i profughi istriani e dalmati dando disposizione agli uffici del Ministero degli Interni di proporre loro Bolzano come prima meta. Su questa gente De Gasperi aveva un piano tutto suo – lo aveva in mente già durante le trattative di pace, quando respinse la proposta degli alleati di tenere un referendum in Istria e Dalmazia, rispondendo che altrimenti si sarebbe dovuto concedere l'autodeterminazione anche ai sudtirolesi.

Fedeli all'Italia e perfettamente bilingui

Nella mente di De Gasperi dunque, il destino del Sudtirolo e quello dei profughi si intrecciavano per molte ragioni. I profughi avevano vissuto a lungo in un clima asburgico e mitteleuropeo, erano plurilingui (italiano, tedesco, croato e spesso francese) e tutto, qui da noi, ricordava la loro terra d'origine: il cibo, l'arredamento la convivenza con gente diversa. Ma erano anche persone fedelissime agli interessi nazionali dell'Italia, specialmente quelli arrivati in Istria e Dalmazia dopo il 1919, al seguito di Gabriele D'Annunzio. Quasi tutti, tra il 1943 ed il 1945, erano entrati volontari nell'esercito della Repubblica di Salò anche per difendere i propri beni.
Fedeli all'Italia e perfettamente bilingui: De Gasperi cercò di trasferirne in Sudtirolo quanti più poté, per l'"italianizzazione morbida" di questa terra. Non fu facile però convincere i profughi a restare quassù. Cercavano una nuova Heimat, erano abituati ad un'atmosfera laica, aperta, cordiale, mitteleuropea e molti di loro non riuscirono a sopportare il clima ostile che li accolse in Sudtirolo. Specialmente i più poveri, come quel gruppo di minatori istriani che, non trovando un nuovo lavoro, chiesero al viceprefetto di "poter presto emigrare in Australia". Restarono invece i benestanti e i piccoli borghesi: diplomati e laureati, insegnanti, pubblici impiegati, avvocati, notai, medici. Il governo riconobbe i loro precedenti impieghi e dispose la loro "riassunzione obbligatoria" negli uffici pubblici del Sudtirolo.
A Bolzano i profughi venivano ospitati in strutture militari: la caserma Guella di Laives, una baracca militare ai Piani di Bolzano, un deposito dell'aeronautica a Salorno. Poi di loro si occupava il viceprefetto (la carica che allora equivaleva all'attuale Commissario del governo). E come viceprefetto De Gasperi spedì a Bolzano, tra il 1947 ed il 1953, proprio un esule di Fiume, Oscar Benussi, padre di Ruggero, l'attuale consigliere provinciale di Alleanza Nazionale. Fu lui l'uomo chiave, in quegli anni in cui l'autonomia ancora non esisteva e il viceprefetto aveva pieni poteri.
Laureato in legge a Budapest, Oscar Benussi era stato viceprefetto a Spalato (Split) dal 1941 al 1943 e poi fino al 1945 prefetto della Repubblica di Salò a Treviso. Subito dopo la guerra fu tra i fascisti "epurati", sospeso dal servizio e privato di stipendio e diritto di voto, finché nel 1947 lo Stato italiano gli riconobbe di aver agito "per la difesa degli interessi nazionali". Fu riabilitato e subito dopo De Gasperi lo mandò a Bolzano.
Qui anche Oscar Benussi si ricostruì una vita, mostrandosi uomo moderato: da giovane era stato membro della "Giovane Fiume", che chiedeva lo status di "città libera e porto franco" (contro il partito degli "annessionisti" dannunziani) e dunque non ebbe difficoltà a capire le istanze dei sudtirolesi.
Frequentava le case dei Magnago e dei von Walther. Ma l'insediamento dei profughi, quello lo gestì come una sacra missione. E con successo, visto che numerosi posti di vitale importanza furono occupati dai suoi profughi. Vittorio Karpati, vicequestore di Fiume fino al 1945, divenne vicequestore di Bolzano. Il giudice Radnich, di Pola (Pula), presidente del Tribunale. L'avvocato De Vernier, di Pola, segretario provinciale della Croce Rossa. Il medico fiumano Leone Spetz Quarnari direttore dell'ospedale di Bolzano.
Il funzionario di Zara Ercole Scopigno fu direttore degli uffici finanziari; Ladislao De Laszloczky, funzionario della Banca d'Italia a Fiume, diventò direttore della Cassa di Risparmio; il fiumano Rodolfo Sperber fu nominato direttore dell'azienda provinciale dei trasporti, che allora si chiamava S.A.S.A., e presidente del Coni (il comitato olimpico); Eligio Serdoz, di Fiume, capo dei boy scouts: il fiumano Giulio Karpati colonnello degli alpini di Bressanone; il medico Emilio Della Rovere, di Abbazia (Opatija), direttore generale della Cassa Malati; Onofrio Pardi, di Fiume, ingegnere responsabile del dipartimento Verona-Brennero delle ferrovie.

Autisti e automeccanici istriani

A loro volta, ciascuna di queste persone inserì quanti più profughi poteva negli uffici che dirigeva. Il fiumano Sperber riempì la S.A.S.A. di autisti e meccanici istriani. Sotto il direttore Spetz Quarnari l'ospedale e le strutture sanitarie si affollarono di medici dalmati, dentisti fiumani, farmacisti di Pola. Pattuglie di profughi entrarono all'Inps, nelle banche, nelle assicurazioni. Arrivarono in massa notai e avvocati (tra cui il cancelliere giudiziario Giovanni Dragogna da Pola, padre di Sergio Dragogna, noto avvocato liberale di Bolzano ora in Forza Italia), carabinieri ed ufficiali, barbieri, fotografi, sarti, albergatori e portieri di notte, commessi viaggiatori e tanti maestri e maestre, professori e professoresse (e qualche preside, come Tullio Walluschnig alle medie di Merano).
C'erano poi le industrie, e a questo pensava Ruggero Benussi, figlio di Oscar. Nell'esercito di Salò, Ruggero aveva comandato una speciale squadra di parà dalmati alle dipendenze dirette della Wehrmacht ed era sfuggito per poco alla fucilazione da parte dei partigiani. A Trieste aveva lavorato per gli angloamericani e lì era stato notato da Vincenzo Ventafridda, direttore delle Acciaierie di Bolzano, che lo aveva fatto suo segretario particolare. Da quel posto di comando nella zona industriale, Ruggero Benussi aprì le porte della Lancia, della Montecatini e delle Acciaierie ai profughi dalmati e istriani.
Il dalmata Ervino Katalinich, operaio alla Montecatini, fondò la "Bolzano nuoto" e creò con i profughi istriani la squadra cittadina di pallanuoto – il Lido di Bolzano diventò un punto fisso di ritrovo. L'avvocato Antonio Vio, primo podestà della "Fiume italiana" dopo l'annessione del 1924, venne a Bolzano trasferendoci anche altre sue attività – in Istria era conosciuto come uno degli esponenti di spicco della massoneria. A Merano si trasferì anche il deputato istriano Ossianich, che nel parlamento di Budapest aveva proclamato "l'italianità di Fiume" nel 1918.
Funzioni religiose e funerali erano celebrati da don Felice Odorizzi, che era fuggito da Pola con l'ultima nave degli esuli, il "Toscana", su cui erano state caricate pure le tombe dei propri antenati (e i vecchi raccontavano che gli uccelli che avevano il nido nel cimitero si erano alzati in volo e avevano seguito la nave, fino a perdersi nel mare). Per farsi i capelli c'era un barbiere di Spalato, che aveva il negozio in cima a via Dalmazia.
I profughi facevano capo all'Associazione nazionale Venezia Giulia e Dalmazia, che aveva la sede in piazza della Mostra al numero 8 e stava aperta dal martedì al sabato. L'associazione curava le pratiche di riconoscimento dello status di profugo (che dava diritto alla precedenza nelle assunzioni e a una quota degli alloggi popolari). Promuoveva la costituzione di cooperative per la costruzione di case (furono realizzzati più di 60 appartamenti, tra cui gli ultimi palazzi di Corso Libertà prima di piazza Gries).
I profughi istriani e dalmati – questo in Sudtirolo non lo sa quasi nessuno – furono degli optanti – come i sudtirolesi, ma assai più sfortunati. Sono fuggiti in 350mila, dopo aver avuto 16mila morti (reazione anche ai crimini commessi laggiù dal regime fascista, che solo nei 29 mesi di occupazione della Slovenia uccise ventimila persone).
Come ai sudtirolesi nel 1939, nel 1947 agli italiani rimasti dentro il confine jugoslavo fu proposta l'"opzione" tra la cittadinanza slava e quella italiana. Chi si dichiarava italiano (e furono i più) veniva immediatamente espulso dal paese – con un decreto che finiva con "Morte al fascismo, libertà al popolo!". I "rimpatriati" potevano portare via solo qualche valigia, mentre sul resto dei loro beni tra Roma e Belgrado si stava tessendo uno sporco affare. Dopo la guerra infatti l'Italia doveva alla Jugoslavia 200 milioni di dollari in danni di guerra. De Gasperi propose allora che la Jugoslavia si ripagasse coi beni dei "rimpatriati" – ci avrebbe pensato poi il governo italiano a rimborsare i profughi. Ma le cose non andarono affatto così.

La grande delusione

Non accadde subito, accadde dopo il 18 aprile 1948, dopo che De Gasperi ebbe vinto le elezioni – e le vinse anche grazie ai racconti che i profughi facevano in giro per l'Italia sulla "barbaria comunista". Fu dopo le elezioni che si cominciò a parlare dei rimborsi. Ma per averli il governo italiano scoprì d'un tratto che occorreva ad ogni esule un attestato jugoslavo di confisca dei beni: chi poteva averci pensato, nei giorni drammatici dell'esodo?
La delusione fu enorme: loro, che erano fuggiti per poter restare italiani, venivano ora traditi dalla loro stessa patria. Cominciarono a chiedere disperatamente documenti a consolati e ambasciate, mostrarono foto di cimiteri con le tombe di famiglia, tentarono cause in tribunale. Il poco che fu riconosciuto arrivò dopo molti anni, e a rate.
In questo clima, a metà degli anni '60, si fece vivo anche l'esercito: qualcuno al Ministero si era ricordato delle famiglie di esuli ospitate nella caserma di Laives tra il '48 ed il '54. E ora, dieci anni dopo, chiedeva gli arretrati dell'affitto. L'ultima beffa.

Riccardo Della Sbarba

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