“Le vicende dei Giuliani Dalmati in prospettiva europea” è il tema che il comitato provinciale di Milano dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia ha affrontato nell’incontro settimanale che si è svolto giovedì 13 maggio sulla pagina Facebook del comitato (http://www.facebook.com/groups/2559430654128300). Relatore dell’incontro Paolo Segatti, professore di Sociologia politica alla Statale di Milano: riportiamo qui di seguito un estratto della sua conferenza che può essere integralmente vista su YouTube.
Prof. Paolo Segatti «Le vicende che hanno costretto larga parte dei giuliani- dalmati ad andarsene da casa loro alla fine della seconda guerra mondiale vengono collocate, quando se ne parla, quasi esclusivamente nel contesto dei rapporti tra italiani, sloveni e croati. Ed è inevitabile che sia così. L’esodo e le foibe sono tutti eventi che trovano la loro radice nello scontro tra opposte aspirazioni nazionali che dalla fine dell’Ottocento hanno diviso le popolazioni dell’Alto Adriatico, un conflitto poi esacerbato dalle ideologie totalitarie. Ma è una prospettiva che non aiuta a cogliere la dimensione europea di quel conflitto e delle sue ragioni. Da tempo diversi storici hanno sottolineato come la prospettiva europea sia utile per valutare il significato storico di quelle vicende. Infatti il conflitto che ha opposto le popolazioni dell’alto Adriatico ha aspetti comuni con la storia di molti popoli dell’Europa orientale. L’esodo dall’Istria è un capitolo degli spostamenti di popolazioni che nel corso del Novecento hanno ridisegnato la composizione linguistica e religiosa della vasta area che va dal Baltico all’Adriatico e al Mar Nero sino alla penisola anatolica. La violenza stessa che si è abbattuta sui giuliani dalmati non è diversa da quella che ha travolto le minoranze linguistiche e religiose di questa area e più in generale tutti quei gruppi che il vincitore di turno considerava soggetti politicamente infidi. I livelli sono stati certamente diversi. Da episodici eventi di brutalità sino alla sistematica volontà di eliminare un intero popolo. Il che fa della Shoah un caso a sé in un Novecento che inizia comunque con lo sterminio degli Armeni. Ma tanto la violenza quanto le sue conseguenze pongono un problema più generale. Quali sono le ragioni che hanno reso vittima del vincitore di turno chi è venuto a trovarsi nella condizione di minoranza linguistica, religiosa e nazionale?
È un interrogativo che va direttamente al centro di un problema storico politico ancora irrisolto che riguarda il rapporto tra lo stato e la nazione. Diffusissima è la convinzione, oggi come ieri, che lo stato e la nazione siano due facce della stessa medaglia. In sostanza la stessa cosa. Ma non era così e non è così ancora oggi, tranne per pochi paesi del mondo. Certamente non era così dopo la prima guerra mondiale. Scomparsi i grandi imperi quello austro-ungarico, quello russo e quello ottomano, l’aspettativa dei vincitori era che gli stati successori fossero stati nazionali quanto lo erano la Francia, l’Italia e altri paesi europei. In realtà nessuno degli stati successori era tale. Non lo era la Polonia. Poco meno di due terzi degli abitanti di quel paese si dichiarava nei censimenti polacco. Non lo era la repubblica cecoslovacca né ovviamente il Regno dei Serbi, dei Croati e degli Sloveni, poi Regno di Jugoslavia, perché includeva numerose minoranze religiose e linguistiche. Non lo era nemmeno a ben vedere il Regno d’Italia. Un paese unito nella lingua e nella cultura da secoli. Con il 4 novembre 1918 completava il suo Risorgimento nazionale. Ma allo stesso tempo, grazie a quella vittoria, incorporava entro i suoi confini quasi mezzo milione di persone di altra lingua e cultura, che avrebbero voluto far parte di stati diversi e per questo molti di loro avevano combattuto strenuamente contro l’Italia.
Nella visione delle classi dirigenti, se la popolazione di uno stato non era culturalmente omogenea, lo doveva diventare attraverso politiche di omogeneizzazione linguistica e culturale. Assimilative oppure incoraggianti l’espulsione delle minoranze ritenute non assimilabili. Ad esempio, le politiche attuate dal fascismo nei confronti delle minoranze acquisite dopo il 1918 non sono state diverse da quelle attuate da altri stati, come ad esempio da quelle del Regno di Jugoslavia nei confronti delle sue minoranze non slave o della Polonia nei confronti degli ucraini o degli ebrei. Il problema delle minoranze tra le due guerre è stato uno dei fattori che ha reso impossibile la democrazia negli stati successori degli imperi. Infatti è crollato in tutti tranne in Cecoslovacchia. Tra le due guerre il nodo delle minoranze ha rappresentato una causa di latente conflitto tra stati, nonostante i tentativi della Società delle Nazioni di elaborare politiche di protezione delle minoranze. Non è dunque un caso che a Potsdam nel 1945 gli alleati si posero il problema delle minoranze. La soluzione che adottarono fu ancora una volta quella degli spostamenti di popolazione e del ridisegno dei confini. I regimi comunisti, pur con differenze tra loro, trasformarono lo spostamento di popolazioni in violente e brutali espulsioni, nonostante la loro ideologia internazionalista. Polacchi cacciati dalla Galizia prima dai partigiani ucraini e poi dall’Armata Rossa. Ucraini dalla Galizia occidentale dal governo comunista polacco. Tedeschi da ovunque, anche di quelli che non avevano aderito al nazismo. Nel caso degli istriani le modalità furono forse diverse. Ma non certamente le conseguenze. Alla fine la presenza dell’italianità in Istria fu annichilita.
Il punto è che tutta la storia dei Novecento europeo è attraversata dalla convinzione diffusa nelle classi dirigenti, di qualsiasi orientamento ideologico, che la modernità è rappresentata da uno stato omogeno da punto di vista nazionale. Nel caso in cui la realtà sia diversa, l’idea condivisa è che occorra fare in modo che nazione e stato vengano fatte coincidere o con l’assimilazione o con gli spostamenti di popolazioni. Evidentemente la natura totalitaria o meno di un regime politico ha fatto la differenza quanto alle modalità. Ma l’obiettivo rimane lo stesso. Ma la storia del Novecento in Europa Orientale, se una cosa mostra, è che è finito il tempo in cui è possibile costruire la nazione omogenizzando lingua e culture degli abitanti di un paese e al tempo stesso consolidare la democrazia. Se si vuole preservare la democrazia in stati non culturalmente omogenei, è necessario costruire istituzioni che garantiscano i diritti collettivi alla diversità culturale e nazionale incardinandoli però negli ordinamenti che assicurano a tutti gli stessi diritti individuali di cittadinanza a prescindere da lingua o religione.
Le ragioni per ricordare le vicende dei giuliani e dalmati sono tante. Tra queste a me pare utile ricordarle perché testimoniano che nel dopoguerra fu per loro impossibile rimanere a casa loro, continuando ad essere italiani e senza venire trattati per questo da cittadini di seconda classe, anche quando la violenza dell’immediato dopoguerra declinò. Ricordarle costringe a chiedersi se l’aspettativa che ad ogni stato corrisponda una nazione omogenea, invece di apparire l’illusione che è, sia ancora un principio che governa il destino di molti in molte parti del mondo.»
Fonte: Resegone online (Alpi Media Group)