ANVGD_cover-post-no-img

Pamich: sempre nel cuore la sua Istria lontana (50&Più mar 09)

di Giuseppina Fratarcangeli

Il grande campione fuggì da Fiume nel 1947 con suo fratello. Dopo anni durissimi come profugo cominciò a fare sport. È diventato 40 volte campione italiano di marcia e 2 volte europeo, ma tra i suoi trofei c'è anche un oro olimpico. Il suo commosso ricordo delle Foibe.

Un cambiamento di quelli che segnano tutta un'esi­stenza. Uno sradicamento totale imposto dalla voglia di sopravvivere ma che costringe a la­sciare, da un giorno all'altro, la pro­pria terra, la famiglia, gli amici, gli studi, i luoghi della quotidianità. Questo è accaduto alle genti giuliane, fiumane e dalmate. Abitanti di un'I­stria italiana fino a quando verrà oc­cupata dalle truppe di Tito.

Quando è fuggito da Fiume, nel set­tembre 1947, con il fratello Giovanni maggiore di un anno, Abdon Pamich, uno dei nostri più affermati e generosi campioni sportivi – 40 volte campione italiano per i 50 km di marcia, 2 volte europeo e oro olimpico – di anni ne ave­va tredici. Figlio di uno stimato impren­ditore studiava e accarezzava i progetti di un futuro che si prospettava rassicu­rante, quando venne il triste epilogo di una guerra dichiarata da Mussolini il 6 aprile 1941 alla Yugoslavia, che viene at-taccatta da 8 divisioni italiane e da 21 divisioni tedesche. Il conflitto, all'ini­zio, sembra procedere a favore dell'al­leanza italo-tedesca. Tanto che l'8 luglio di quell'anno Germania e Italia dichia­rano che lo Stato yugoslavo ha cessato di esistere. I territori conquistati vengono spartiti. All'Italia toccano la regione di Lubiana, buona parte della Dalmazia con le isole adriatiche e il Montenegro. Ma i partigiani slavi continuano a com­battere anche quando con l'armistizio del settembre 1943 gli alleati cambiano e le navi italiane lasciano i porti occupa­ti in precedenza nell'Adriatico. E il mo­mento della vendetta che diventerà ge­nocidio a partire dal 1945 e continuerà con incredibile violenza da parte delle truppe tirine per oltre quaranta giorni dopo la fine della guerra, il 25 aprile. Anni tragici per l'Istria destinata, senza possibilità di revoca, alla nuova repub­blica comunista, nata il 29 novembre 1945 con il consenso dei quattro gran­di. Terre italianissime ma ormai parte di un blocco pressocché monolitico di re­gimi comunisti e tanto impenetrabile che nel marzo 1946 Churchill lo defi­nirà "cortina di ferro". Dietro quella cortina le persecuzioni contro gli italia­ni d'Istria da parte delle truppe del ge­nerale Tito, ansiose di vendicarsi delle sofferenze e desojazioni di una lunga guerra, erano cominciate da tempo. Un "crescendo" rapido quanto brutale. Dalle limitazioni nel lavoro si era arriva­ti al sequestro delle terre, alle torture, al­le fucilazioni e all'infoibamento nelle cavità carsiche, diventate fosse comuni per centinaia di esecuzioni sommarie. Oltre 20mila secondo gli elenchi le vit­time, arrestate con le motivazioni più vaghe. Liquidate senza processo e getta­te, legate fra loro con fil di ferro, nelle foibe di Vìnes, Zupuliano, Gimino, Su­rani, eccetera: 94 a Parenzo, 40 a Capodistria, 19 a Santa Marina degli Slavi. Una macabra capillarizzazione di assas­sini che non risparmia alcuna zona. Co­sì le genti istriane, dalmate, fiumane hanno cominciato a fuggire molto pri­ma che fosse loro concesso di tornare in patria come profughi. Una diaspora di 350mila esseri umani, senza precedenti se non negli svuotamenti dei ghetti co­me a Varsavia, nei pogrom staliniani, nell'esilio degli Armeni. Da un giorno all'altro Abdon Pamich si è ritrovato in una realtà estranea, lontano centinaia di chilometri da casa, con solo una ma­glietta e i calzoncini indossati per anda­re al mare vari giorni prima. «Ce ne an­davamo all'improvviso, quasi sempre uno alla volta e senza bagagli per non destare sospetti – racconta Pamich -. Per lo meno chi era giovane e sano perché per gli altri, gli anziani, e per chi non era in grado di affrontare perigliosi viaggi, sempre di notte, via mare, su minuscole imbarcazioni per sfuggire alle vedette yugoslave che pattugliavano la costa o lungo impervi tragitti su per le monta­gne del confine, non c'era alternativa: dovevano restare. Le famiglie sarebbero partite più tardi, in un esodo biblico, sti­pandosi sulle navi, come il Toscana, in partenza dal porto di Pola nel 1947 quando lasciare l'Istria divenne scelta obbligata per sopravvivere. Piangevano tutti. Gli anziani sulla spalla dei più gio­vani guardando la costa che si allontana­va e luoghi dove avevano lasciato tutto. Molti tenevano in mano una bandieri­na italiana, altri avevano un nastrino tri­colore appuntato sul petto. Erano loro, i vecchi, i più inconsolabili. Aggrappati alla meglio, in cima a carretti spinti a mano, carichi di quanto rappresentava il sunto di una vita, lo sguardo volto in­dietro. Quasi a imprimere nel ricordo luoghi dove sapevano che non sarebbe­ro tornati. I documentari realizzati dal­l'Associazione Nazionale Venezia Giu­lia e Dalmazia andrebbero proiettati nelle scuole e in televisione. Con fre­quenza. Fissano la tragedia di un popo­lo. Si partiva con il certificato di "profu­go" che dava diritto a tre razioni da 300 grammi di pane e 300 grammi di chiodi (sic) per famiglia, previa presentazione di "ricevuta di esodo". Solo oggi si è squarciato il muro di silenzio che ha co­perto questa vergognosa pagina di sto­ria. Perché alla perdita di tutto, insom­ma, è seguita la beffa. Nessuno ci voleva. Eravamo ragazzini ma con mio fratello ce ne siamo accorti appena arrivati in Italia».

Invitiamo Pamich a raccontare la sua storia. Non lo fa volentieri, è uomo di poche parole. Come la sua gente, abituata al "fare" e lontanissima dal "piangersi addosso". Gente, come i vi­cini friulani a cui li accomunano sto­ria, atteggiamenti, visione del quoti­diano, gente abituata nella sventura, si tratti di terremoto o di guerra, a rim­boccarsi le maniche senza aspettare aiuti dall'esterno. Nel raccontare è at­tento a smussare ogni effetto dramma­tico, a non far trasparire negli occhi chiari, nell'espressione pacata di chi è invecchiato bene, l'emozione che di si­curo ancora prova. Eppure la sue paro­le sono pietre e come tali pesano.

«Non c'erano permessi di espatrio, né ancora possibilità di scegliere la citta­dinanza italiana e andarsene. Sono fug­gito con mio fratello perché era l'unico modo per andarsene anche se il rischio era grande. Se ci prendevano la morte era certa. E terribile, come sempre è sta­to nei Balcani dove il sangue, le lotte fra le comunità, il poco valore dato alla vi­ta, sono una realtà, come dimostra l'ul­tima, orrenda carneficina nella Yugoslavia appena è stata libera dal pugno di ferro di Tito. Volevamo raggiungere mio padre già fuggito in Italia grazie al­la possibilità di viaggiare legata all'inca­rico ricevuto dalla Repubblica Yugosla­va di gestire la nazionalizzazione delle industrie del legname. Mia madre e gli altri due fratelli erano rimasti e il timo­re di rappresaglie nei loro confronti era grande. Restare a Milano con mio pa­dre, senza lavoro e senza casa, era im­possibile. Così ci hanno portato in un campo profughi a Novara». –

Dev'essere stata un'esperienza dura, per due ragazzi. Molto. Per fortuna eravamo stati edu­cati al dovere e al sacrificio. La nostra situazione economica, prima che tutto cambiasse, era ottima ma ci siamo sempre dovuti conquistare tutto. A Novara siamo stati per un anno nel camerone di un'ex caserma diviso da tende appese a fili di ferro. Finestre senza vetri, l'acqua che quando pioveva en­trava dai tetti, e tante cimici. Dormi­vamo su un cavalletto di legno con un materasso di foglie di granoturco. Mangiavamo lenticchie e riso, qualche pezzettino di carne solo la domenica, nella zuppa. Cinque lire di diaria quando un etto di margarina ne costa­va settantacinque. Poi finalmente mio padre ha trovato lavoro a Genova e an­che la mamma ci ha raggiunto. Lì ho cominciato a praticare sport. Sulla scia di mio fratello che faceva marcia. Lui poi ha smesso e io ho continuato, forse perché tutte le cose cerco di farle con dedizione e serietà.

– Pensava che lo sport sarebbe stato importante nella Sua vita, e di diventare un campione ? Un campione, no. Avevo ben altre preoccupazioni. Ma ho vissuto in un ambiente sportivo fin da bambino. Mio zio aveva una palestra di pugilato e già a cinque anni andavo a vedere gli incontri. Poi si nuotava, si andava in montagna sul Monte Nevoso e il Mon­te Corno. Lo sport era consuetudine dalle mie parti, anche tanti anni fa. Fiume era una piccola città di mare ma ha dato allo sport tanti campioni: nuo­tatori, calciatori, alpinisti, pugili. For­se l'essere una città di confine dove per secoli si sono incontrate tante etnie ha dato caratteristiche fisiche positive.

– Macinare chilometri su chilometri per ore richiede specifiche doti fisi­che e mentali. La marcia è uno sport particolare?

Camminare e correre sono movimenti naturali. Se si vuole velocizzare il cam­minare senza mettersi a correre bisogna imparare e seguire delle tecniche. È ne­cessario essere costanti ed equilibrati più che in altre discipline. Dovevo la­vorare per portare avanti la famiglia e potevo allenarmi la mattina all'alba e più a lungo solo nel fine settimana e durante le festività. A Capodanno mentre la gente tornava dal veglione io correvo. Ma non ho mai ritenuto l'im­pegno sportivo un "sacrificio". Per chi la pensa così è meglio smettere. Tanta gente si sveglia ogni giorno alle quattro per andare al lavoro senza esserne grati­ficato. Chi si è sacrificata è mia moglie, pronta ad assecondare, per farmi con­tento, qualcosa che non le apparteneva. Non ho mai corso per arrivare primo. Le vittorie sono venute dopo.

– Quali le più importanti?

Certo ci sono le medaglie olimpioni­che, il bronzo a Roma nel I960, l'oro a Tokio nel 1964. Ma indimenticabile, nel 1956, la 50 km da Praga a Pode-brady; ero uno sconosciuto che si con­frontava con i più forti del mondo. Mi sarei accontentato del quindicesimo posto e invece ho vinto. Così ho conti­nuato a correre.

– Perché gli istriani non hanno incontrato solidarietà in Italia?

Per la sinistra eravamo dei "fascisti" vi­sto che fuggivamo dal paradiso comu­nista. Era il momento delle rappresa­glie contro chi aveva aderito al regime. Un regime di "caccia alle streghe" anche da parte di chi, alcuni sono nomi noti anche oggi, aveva cambiato gabba­na all'ultimo momento per mettersi dalla parte del vincitore. Pensare che mio padre non era neppure mai stato iscritto al partito fascista. A Bologna quando passavano i treni carichi di pro­fughi non li facevano fermare neanche per distribuire l'acqua a chi era in viag­gio, a volte da giorni. D'altronde To­gliatti nell'ottobre 1944, in una circo­lare al Partito Comunista afferma: «Consideriamo positiva l'occupazione della regione giuliana da parte delle truppe del Maresciallo Tito. Significa che in questa regione non vi sarà più occupazione inglese né restaurazione dell'ammistrazione reazionaria italia­na». I democristiani, d'accordo con gli americani, consideravano il comuni­smo di Tito più morbido, una barriera contro l'Unione Sovietica, e non vole­vano contrastare le sue richieste. Noi ci siamo andati di mezzo. I danni di guer­ra? E chi li ha visti? Con quei soldi sono stati pagati i danni alla Yugoslava che proprio per la "mitezza" del suo comunismo era ben vista dall'America tanto da concederle 500 milioni di dollari nel 1948. E contro l'America un'Italia tut­ta da ricostruire non vuole contrasti. E giusto sia stato istituito il "Giorno del-la Memoria", per ricordare una pagina vergognosa della nostra storia troppo a lungo volutamente dimenticata. Ri­guarda 350 mila italiani che hanno la­sciato tutto: beni, ricordi, sogni, anche le tombe dei loro cari.

-E tornato?

Sì, quando ho fatto con degli amici il giro dell'Istria in bicicletta. La casa è sempre lì ma  non ci sono entrato.

– Lei e in ottima forma e continua a praticare sport. Lo consiglia come antidoto al tempo che passa?

Certo, il nostro corpo è una macchina meravigliosa che può riserbare soddisfa­zioni inaspettate a ogni età. Anche per chi non ha mai praticato sport. Basta iniziare in modo "morbido". Senza stra­fare. Camminare a buon passo nella na­tura, in un parco cittadino, aumentan­do nel tempo ritmo e durata del percor­so, è già un valido esercizio. Importante anche occupare la mente. Quando non ho più partecipato a competizioni mi sono laureato in psicologia e sociologia e ho preso un master applicato allo sport. Sono diventato lo psicologo della nostra squadra di palla a mano.

 

0 Condivisioni

Scopri i nostri Podcast

Scopri le storie dei grandi campioni Giuliano Dalmati e le relazioni politico-culturali tra l’Italia e gli Stati rivieraschi dell’Adriatico attraverso i nostri podcast.