Chi fu davvero Josip Broz: un tiranno sanguinario? Un abile politico? Un “principe” balcanico? Tutte e tre le definizioni calzerebbero a pennello per descrivere una figura complessa ed enigmatica quale fu il dittatore jugoslavo.
“Analizzare Tito aiuta a comprendere l’animo dei popoli che guidò per quasi quarant’anni”, spiega Marco Petrelli, autore de I partigiani di Tito nella Resistenza Italiana (MURSIA, Milano, 2020).
Il giornalista e scrittore umbro si è infatti cimentato in una analisi del ruolo di Josip Broz prima durante e dopo la seconda guerra mondiale, affrontando altresì uno studio dello scacchiere balcanico nel XX Secolo in chiave storico-geopolitica.
“Se il comunismo fu il collante – continua Petrelli – la vera malta che ha tenuto insieme l’Esercito Popolare di Liberazione della Jugoslavia prima e la Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia poi è stata il nazionalismo. La breve esperienza del Regno di Jugoslavia aveva in effetti mostrato a Tito l’estrema difficoltà di unire popoli non soltanto diversi fra loro, ma in secolare conflittualità. E gli stessi equilibri di alleanze locali con le potenze straniere dopo l’invasione italo-tedesca del 1941 si erano palesati quali fluidi, basati sul tentativo di garantire sopravvivenza e benefici a singoli gruppi etnici che non ad una reale convinzione”.
Secondo Marco Petrelli, l’obiettivo di Tito era quello di costruire un paese capace di essere tetto per popoli fra loro in perenne conflitto e, nello stesso tempo, un paese libero da ingerenze straniere. Unione Sovietica in testa.
D’altronde, l’espulsione dal ComInform del 1948, la crisi delle relazioni diplomatiche con Mosca che si protrae fino al 1956 – Tito condannò l’intervento sovietico in Ungheria – i frequenti viaggi e gli incontri con capi di stato di paesi socialisti, di paesi Occidentali e di star del jet set internazionale, palesano l’aspirazione del dittatore a promuovere un’immagine indipendente e libera della Jugoslavia, accrescendone altresì il prestigio quale nazione in grado di mantenersi non allineata proprio nella fasi di maggiore attrito fra i Blocchi.
Ma il nome di Josip Broz è anche ed indissolubilmente legato alle vicende degli “italiani orientali”, cioè delle comunità di lingua e cultura italiana da secoli stanziati sulle coste adriatiche della Dalmazia e dell’Istria.
Circa le persecuzioni che, fra il 1943 ed il 1947, colpirono gli italiani il giudizio di Marco Petrelli si discosta dalle regioni sostenute dalla sinistra e dalla destra.
“Il dramma delle Foibe e dell’Esodo, come noto, è saltato agli onori delle cronache solo di recente. Tempi brevi, dunque, ma già un velo ideologico ammanta un capitolo di storia ancora da studiare. Non si trattò comunque di odio comunista, tantomeno di vendette contro i fascisti: il vero disegno di Tito era quello di decimare le minoranze che avrebbero potuto minare la sua ascesa. Italiani, quindi, e kossovari, serbi anti comunisti, croati e sloveni ostili alla causa della Repubblica socialista. Poi, quando ci si accorse che fra gli italiani si annoveravano anche professionisti – figure dunque indispensabili alla ricostruzione – le persecuzioni calarono e si cercò di naturalizzarli jugoslavi. E’ infatti necessario entrare nell’ottica che i paesi si costruiscono seguendo logiche di realpolitik. L’ortodossia ideologica è solo lo zuccherino dato al popolo per edulcorare le scelte prese dalla leadership. Ciò non sminuisce le sofferenze inflitte alla nostra gente, restituisce però un quadro più chiaro di verità storica indispensabile per affrontare, con maggiore criticità, una tragedia a lungo dimenticata”.
Ne I partigiani di Tito nella Resistenza Italiana non si dimenticano i crimini di guerra condotti dall’Asse nei Balcani, tanto che nell’appendice immagini figurano le liste di alcuni dei ricercati da Belgrado al termine del conflitto. Tuttavia si mette altresì in discussione il ruolo dei partigiani slavi quali “liberatori” nella Guerra civile italiana…
“Il fine dei prigionieri evasi ed unitisi alla Resistenza italiana era tornare in patria o combattere, sul suolo italiano, lo stesso nemico che li aveva invasi. Ma il loro ruolo nella nostra resistenza fu tutt’altro che cristallino: non erano nostri partigiani, poiché non obbedivano al Comitato Liberazione Nazionale né al Comando Supremo di Brindisi, perché talvolta entravano in aperto attrito con i combattenti italiani e perché, vedi il caso del Friuli, vi furono tentativi di annessione e di imposizione della lingua slava in territori italiani dal 1866”.
Dal blog di Andrea Cionci su liberoquotidiano.it del 07/07/21