di Kristjan Knez
Il lavoro di ricerca di Raoul Pupo, docente di storia contemporanea all'Università di Trieste, concerne in primo luogo l'età recente della Venezia Giulia. Questo studioso da molti lustri è impegnato nell'indagine dei relativi problemi che si manifestarono nelle nostre terre nel Novecento. Tra i suoi volumi dedicati a siffatti aspetti ricordiamo "Guerra e dopoguerra al confine orientale d'Italia (1938-1956)" (Del Bianco, Udine 1999) e "Il lungo esodo. Istria, le persecuzioni, le foibe, l'esilio" (Rizzoli, Milano 2005), in cui sintetizza i risultati di un lungo lavoro di ricerca che sta a monte, iniziato dagli anni Ottanta in poi. L'ultima sua fatica è il volume "Il confine scomparso. Saggi sulla storia dell'Adriatico orientale nel Novecento" (Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli Venezia Giulia, Quaderni 19, Trieste dicembre 2007, pp. 229), in cui sono proposti cinque saggi su altrettanti aspetti del confine orientale d'Italia nel XX secolo. Il medesimo non è visto solo come linea di demarcazione tra gli stati ma è oggetto di analisi dei problemi e delle dinamiche di un territorio e al contempo diventa un osservatorio per indagare pure la storia degli stati.
Porte aperte da media e politici
"La storia, qualche volta si diverte. Quando, molti anni fa, alcuni studiosi della mia generazione – una mezza dozzina, ad essere generosi – hanno cominciato ad occuparsi delle vicende del confine orientale italiano, la cosa non interessava a nessuno. Storia locale, si diceva, come quella – poniamo – di Cavarzere o del Gennargentu. Tra la fine invece degli anni Ottanta e gli inizi dei Novanta del secolo passato, come oramai tutti i lettori sapranno, il venir meno della guerra fredda e l'inopinata scomparsa del comunismo, dell'Unione Sovietica e della Jugoslavia hanno cambiato completamente la situazione. La politica ha drizzato le orecchie, i media hanno aperto le porte, gli editori le loro collane, e un buon numero di persone ha cominciato ad occuparsi a vario titolo della storia della frontiera orientale. Nel frattempo, il confine è scomparso." (p. 7)
Significativa è già la veste grafica: sulla prima di copertina osserviamo un cippo, uno dei tanti che segnano il confine tra l'Italia e la Slovenia (prima con la Jugoslavia), una segnaletica bilingue indicante il confine di Stato e la bandiera dell'Unione europea, quindi sottolinea quell'evento, che possiamo definire storico, che ha portato alla caduta del confine e all'entrata della Slovenia stessa nell'area Schengen, avvenuta il 21 dicembre 2007, che segna la fine di una barriera tra le repubbliche, che aveva provocato lacerazoni, cesure e determinato trasformazioni radicali (dal punto di vista etnico, linguistico, culturale). Sulla quarta di copertina, invece, è stata inserita una foto d'epoca, che raffigura un segmento del confine d'Italia, che era ubicato molto più ad oriente rispetto a quello stabilito nel 1954.
Il venir meno della sovranità italiana
Il confine in questione è quello sul fiume Eneo, o Fiumara o Rjecina, che segnava, dal 1924 al 1941, il limite tra i Regni d'Italia e quello di Jugoslavia, e al contempo separava, storicamente, la città di Fiume dal sobborgo di Susak. Non appena prendiamo in mano questo volume riscontriamo alcuni elementi indicanti la complessità del confine orientale italiano, contraddistinto da espansioni e contrazioni, che non riguardavano solo un avanzamento o un arretramento territoriale bensì tangevano anche altri aspetti: economici, amministrativi, sociali, scolastici, culturali, politici, demografici, militari, diplomatici, ecc. Tali aspetti, e gli smottamenti provocati dal passaggio da una realtà statuale ad un'altra, sovente insensibile alle specificità della regione, dovute al carattere eterogeneo della stessa, con nazionalità, lingue e culture diverse, sono puntualmente sottolineati nei cinque saggi del volume, che trattano argomenti certamente diversi ma complementari.
Dal 1866 al 1943 il confine orientale italiano conobbe diverse tappe d'avanzamento verso est, in direzione di Trieste e dell'Istria, inglobando pure parte della Slovenia (Lubiana, Novo mesto) e della Dalmazia (Spalato, Cattaro, parte dell'arcipelago della Dalmazia centrale). Dall'otto settembre 1943 sino al 1954, si assistette invece al progressivo arretramento del confine italiano verso occidente, con il conseguente venir meno della sovranità italiana, determinata dal Trattato di pace del 1947 e dagli accordi successivi, che portarono alla perdita di tutte le terre dell'Adriatico orientale, eccetto il capoluogo giuliano ed il suo territorio più prossimo, dopo un contenzioso con la Jugoslavia di Tito che si protrasse per quasi un decennio.
Il volume raccoglie una serie di saggi già pubblicati negli ultimi anni in sedi diverse, e ora riuniti permettono al lettore di seguire alcune delle problematiche concernenti il confine orientale d'Italia nel corso della prima metà del Novecento. L'autore propone l'analisi di alcuni aspetti che sono ancora oggetto di indagini e discussioni storiografiche e getta nuova luce su questioni che per molto tempo erano rimaste cristallizzate e, per certi versi, strumentalizzate dalla politica, specie quella delle terre prospicienti il confine medesimo.
Una sorta di laboratorio
In "Fra storia e geografica: alcune riflessioni sul confine orientale italiano", Pupo evidenzia che la storia giuliana dev'essere vista come una sorta di laboratorio in cui, su di una scala circoscritta, si sono concentrati alcuni processi tipici della contemporaneità, come: i contrasti nazionali intrecciati a conflitti sociali; gli effetti devastanti della dissoluzione degli imperi plurinazionali che per secoli avevano occupato l'area centro-europea; i regimi totalitari impegnati ad imporre il loro potere totalitario su di una società locale profondamente divisa; i trasferimenti forzati di popolazioni capaci di modificare irreversibilmente la configurazione etnica di un territorio; la conflittualità est-ovest lungo una delle frontiere della guerra fredda (p. 12). Tale territorio assunse anche dei valori e dei significati diversi nel corso del tempo, pertanto, ricorda lo storico triestino, per gli Italiani, e non solo per le élites politicizzate, quella orientale divenne fra XIX e XX secolo la frontiera della patria per eccellenza, di conseguenza dalle Alpi all'Adriatico si configurò una "frontiera di tensione, che divenne "frontiera di mobilitazione" nel momento in cui si invocò la cosiddetta "vittoria mutilata", o più tardi, nel secondo dopoguerra, con il nodo di Trieste. A quelle latitudini si materializzò anche una "frontiera ideologica", infatti, lo spostamento della frontiera orientale assumeva, per i comunisti giuliani, un significato nuovo in quanto avrebbe portato alla creazione di una statualità socialista.
«Passerella sul vuoto»
Al termine del secondo conflitto mondiale il territorio fu tagliato da una "frontiera della guerra fredda", quel tracciato confinario "(…) separava zone fra loro in passato strettamente interdipendenti, e sconvolgimenti demografici senza precedenti, costituirono le premesse per fare di quella situata alla frontiera tra Italia e Jugoslavia un'aerea di crisi" (p. 22). L'ultimo quarto del XX secolo è caratterizzato dal "confine di stabilità", dopo l'accordo di Osimo, mentre all'inizio degli anni Novanta, con la disgregazione della Jugoslavia, inizia quella che Pupo definisce una "passerella sul vuoto", perché "(… ) al margine orientale della penisola italiana prese corpo una nuova frontiera non puntualmente definita sul terreno ma egualmente percepibile, quella fra l'Europa che si integrava, smantellava i confini materiali e tendeva a dissolvere gli altri nel tumultuoso formarsi di una società globale, e l'Europa che invece si frammentava, riscopriva le territorialità su base etnica, e s'industriava a difenderla ed imporla -i due termini sono in realtà inscindibili – con l'intolleranza e la forza delle armi" (pp. 40-41).
Ricco di spunti e di considerazioni è anche il saggio "Le annessioni italiane in Slovenia e Dalmazia 1941-1943. Questioni interpretative e problemi di ricerca". Dopo la breve guerra dell'aprile 1941, le armate dell'Asse avevano annientato la Jugoslavia e successivamente si erano divise il territorio. Il Regno d'Italia acquisì, allora, anche una parte dei territori non ottenuti al termine del primo conflitto mondiale; Mussolini aveva conquistato la sponda opposta dell'Adriatico e ne aveva perfezionato il controllo sino allo Ionio e all'Egeo, raccogliendo in tale modo l'eredità della Serenissima. Nel giro di alcuni anni, però, quella stessa Italia, che aveva sfidato le potenze europee e con le armi ambiva ad una sorta di restaurazione dell'Impero romano, aveva perso tutto, anzi, aveva perso se stessa, con il suo territorio occupato dagli eserciti stranieri e ridotta ad una condizione prerisorgimentale, e "anche quando si ritroverà, non solo non recupererà il bottino, ma perderà addirittura parte delle terre 'redente' ottenute dopo la Grande guerra" (p. 43).
Da nazionale a imperiale
A seguito delle annessioni il confine orientale subì un notevole mutamento e da nazionale, nell'accezione che aveva assunto all'indomani della prima guerra mondiale, divenne imperiale. Come è noto il regio esercito jugoslavo si era dissolto dopo una breve campagna militare e le forze dell'Asse occuparono l'intero territorio di quella monarchia. Con la fine del regno dei Karadordevic emersero rapidamente le aspirazioni dei vari popoli che vi facevano parte, in realtà mai celate, nemmeno nel periodo tra le due guerre mondiali. L'autore rammenta che con particolare tempestività i vertici sloveni avevano proposto alle potenze attaccanti il piano della creazione di uno stato indipendente posto sotto la protezione congiunta dell'Italia, della Germania e dell'Ungheria. "Ma il progetto era campato per aria – sottolinea Pupo -, perché la Slovenia non era la Croazia, con la sua individualità storica, la sua valenza strategica e i suoi legami con il nazifascismo: la Slovenia era semplicemente un territorio adiacente alle potenze dell'Asse, due delle quali avevano dirette rivendicazioni sulle aree ex austriache e ungheresi e la terza – cioè l'Italia – aveva ottime ragioni strategiche per non stare alla sua finestra" (p. 52).
Nella primavera del 1941, perciò, sia una parte della Slovenia sia una parte della Dalmazia furono inserite nel "piccolo spazio", che avrebbe dovuto rappresentare il nocciolo duro dell'impero mussoliniano, in realtà, però, i responsabili della politica estera italiana sembra non abbiano avuto degli orientamenti precisi al riguardo. Ancora nel gennaio 1940 Galeazzo Ciano, pur senza prendere impegni, aveva concordato con Ante Pavelic l'inclusione della Slovenia in un futuro stato croato. Siffatta posizione era dettata dal fatto che l'Italia avesse già una frontiera strategica, ottenuta a Rapallo nel 1920, ed il possesso di Lubiana avrebbe, semmai, solo complicato la situazione. Il venir meno della Jugoslavia e le annessioni tedesche e magiare determinarono la necessità di evitare la formazione di uno spazio neoasburgico tra il Terzo Reich, l'Ungheria e la Croazia. Era, in realtà, una mossa difensiva nel quadro del nuovo assetto centro-europeo a egemonia tedesca ma anche una mossa finalizzata a dare un minimo di respiro alla frontiera italiana. Uno stato fantoccio, poi, non avrebbe fatto altro che alimentare un irredentismo sloveno in Italia; un'annessione avrebbe, invece, dovuto cancellarne le basi.
I piani in Dalmazia
La Dalmazia, grazie anche all'attivismo degli esuli dalmati, rientrava nelle rivendicazioni italiane per antonomasia. L'obiettivo massimalista prevedeva l'annessione non solo dei territori che l'Italia avrebbe dovuto ottenere con il patto di Londra del 1915, bensì tutta la fascia costiera, da Segna a Cattaro, nonché l'immediato retroterra fra Zara e Sebenico, inclusa l'area di Knin a maggioranza serba. I piani previsti, però, trovarono una realtà diametralmente opposta, perciò "nel giro di pochi mesi divenne chiaro invece che il contesto reale creato dall'invasione italo-tedesca e delle sue conseguenze era completamente diverso e rimandava, semmai, non all'esperienza legalitaria asburgica ma a quella sanguinosa delle guerre balcaniche" (p. 55). In realtà l'ampiezza di tali annessioni non piacque nemmeno agli esponenti di spicco dell'irredentismo adriatico, come Attilio Tamaro, e pure Riccardo Gigante si dimostrò contrario all'allargamento della provincia di Fiume, ma furono voci inascoltate.
L'area balcanica si trasformò in un vero e proprio fronte di guerra, che inghiottì ingenti risorse senza che le truppe di occupazione riuscissero mai a venirne a capo. La macchina bellica italiana si impelagò in una " (…) guerra di tipo coloniale nel teatro europeo, combinandosi alla disomogeneità degli obiettivi con gli alleati tedeschi e croati" (p. 63). Ben presto si assistette alla repressione. Vi era una differenza sostanziale tra il modo di agire dei Tedeschi e quello degli Italiani. Raoul Pupo scrive che alla base della macchina repressiva tedesca stavano la forza e la convinzione, cioè "(…) la fondata consapevolezza della superiorità tecnologica delle forze armate germaniche unita alla certezza della superiorità razziale nei confronti dell'avversario e a larga adesione ideologica alle finalità del conflitto.
Di conseguenza, le unità tedesche, fortemente nazificate e in alcuni casi addestrate alla controguerriglia anche sotto il profilo psicologico, erano ben motivate ad andare in cerca del nemico per individuarlo e distruggerlo a qualsiasi costo. Viceversa, i soldati italiani – male equipaggiati, scarsamente riforniti al punto che i saccheggi compiuti durante i rastrellamenti venivano talvolta considerati utilissima forma di integrazione del rancio, assai poco motivati al combattimento e perplessi sulle ragioni della guerra, spesso incapaci di distinguere il nemico, mista la difficoltà di orizzontarsi fra alleati infidi, avversioni dei collaboratori e bande armate di ogni tipo – potevano reagire con ferocia quando veniva messa a repentaglio la sicurezza dei reparti, sfogando spesso sulla popolazione civile la rabbia per le perdite subite e la frustrazione per l'inconcludenza delle operazioni contro i partigiani" (pp. 67-68). La debolezza delle forze armate italiane si sarebbe pertanto tradotta nella rappresaglia come puro strumento di intimidazione.
Tentativi di assimilazione
Il saggio affronta anche l'aspetto delle politiche di assimilazione. Per quanto concerne la cosiddetta provincia di Lubiana il nuovo ordinamento prevedeva il bilinguismo nell'amministrazione – pertanto limitate furono le sostituzioni del personale -, come pure la conservazione di un ordinamento scolastico in lingua slovena e furono mantenuti in vita i presidi culturali essenziali come l'Università di Lubiana. La politica italiana in Slovenia propose un modello alternativo rispetto all'intensa azione snazionalizzatrice nazista. In Dalmazia i poteri decentrati furono maggiori tanto da giustificare la dizione ufficiale di "governo" anziché di "governatorato". Il governatore concentrava nelle sue mani la potestà esecutiva, quella legislativa e quella giudiziaria. "È questa un'ulteriore conferma del profilo elevato attribuito alle conquiste adriatiche, che si accompagnò alla riproposizione del modello di integrazione accelerata nello stato italiano sulla scorta della precedente esperienza giuliana, con la quale la situazione dalmata condivideva alcune condizioni essenziali" (pp. 73-74), come l'esistenza di rivendicazioni storiche, la presenza di una componente italiana autoctona, anche se in proporzione molto minore, un corrispondente giudizio sull'artificialità della pre-ponderenza slava, ritenuta in larga misura frutto delle politiche messe in atto dapprima dagli Asburgo e successivamente dal Regno di Jugoslavia.
Nel prosieguo Pupo focalizza l'attenzione sull'italianizzazione della scuola dalmata ed il tentativo di fascistizzazione della Dalmazia, mentre una sezione di notevole interesse è quella relativa al collaborazionismo. L'Italia si era inserita in pieno nella guerra civile che infuriava sul territorio dell'ex Jugoslavia, e che la medesima aveva contribuito a scatenare, appoggiandosi alle componenti anticomuniste, che aveva invitato alla mobilitazione. Così, ad esempio, in Montenegro il governatore militare Pirzio Biroli strinse con le forze nazionaliste locali una serie di accordi che non concernevano esclusivamente la sfera militare ma pure quella politico-amministrativa, anche in Bosnia vi fu un reciproco sostegno militare fra Italiani e cetnici che divenne una sorta di pilastro della strategia italiana, in modo particolare nel momento in cui il comando della II Armata passò al generale Roatta. Nella provincia di Lubiana, invece, in un primo momento, si registrarono non poche riserve nei confronti dell'apparato militare di elementi locali, perciò né l'alto commissario né le autorità militari si fidavano dei gruppi politici favorevoli alla collaborazione, perché erano titubanti che ciò rappresentasse, in realtà, una finalità indipendentista.
Il dilagare del movimento di liberazione, però, fece cambiare atteggiamento alle forze italiane le quali accolsero di buon grado gli anticomunisti sloveni e così superarono le antecedenti remore, e in tutto ciò non va dimenticata l'azione svolta della Chiesa locale. Si costituirono formazioni armate collaborazioniste, e nel 1942 le unità della Milizia volontaria anticomunista (MVAC) arruolarono un numero di combattenti che superava di molto quello delle formazioni partigiane. Successivamente, però, il movimento di liberazione " (…) assunse sempre più esplicitamente le istanze massime del nazionalismo sloveno – che puntava alla cacciata degli Italiani non solo dalla provincia di Lubiana, ma anche dai territori giuliani fino all'Isonzo – la prospettiva politica delle forze anticomuniste risultò indebolita in misura determinante dal fatto che esse mantenevano comunque quale cornice di riferimento, seppur provvisoria, l'annessione all'Italia" (p. 94).
Eredità del fascismo?
Di notevole interese, anche perché affronta da vicino problemi strettamente legati alle nostre terre, è il saggio "Foibe ed esodo: un'eredità del fascismo?". Nell'introduzione Pupo sottolinea: "le foibe e l'esodo dei giuliano-dalmati come eredità del fascismo e della guerra: è questo un modo assai diffuso di leggere due fra le più gravi tragedie che hanno colpito la Venezia Giulia alla metà del secolo scorso, ma che in sé contiene non poche ambiguità" (p. 97). Sul piano del giudizio storico, avverte lo studioso, il problema da affrontare è quello di capire se questi due fenomeni rappresentano effettivamente solo la conclusione dei processi storici precedenti, e se possono essere considerati solo il lascito di morte che il fascismo e il conflitto hanno trasmesso al dopoguerra. L'esodo fu senz'altro una conseguenza diretta di una guerra perduta, però, precisa l'autore, "(…) se una qualche punizione territoriale risultava piuttosto ovvia, dal momento che era stata l'Italia ad aggredire la Jugoslavia, la completa scomparsa italiana dai territroi ceduti era molto meno scontata" (p. 98).
Per quanto concerne le eliminazioni, note con il termine di "infoibamento", esse sono riconducibili ad una progettualità politica. Si tratta di una pratica collaudata dalle forze comuniste già in precedenza, cioè nell'ambito della guerra civile jugoslava, che imperversava nel corso del secondo conflitto mondiale. Il movimento partigiano guidato da Tito l'aveva sperimentata nei confronti dei propri avversari in Montenegro, in Bosnia, nell'entroterra dalmata, nel Gorski kotar, ecc; e non furono gli unici. Nell'estate 1941, ad esempio, anche gli usta-scia misero in pratica su larga scala l'infoibamento ed i massacri della popolazione serba della Bosnia. Tenendo conto di questi precedenti la "(…) penisola istriana venne raggiunta dalle estreme propaggini delle guerre balcaniche e proprio la sua perifericità rispetto all'epicentro della crisi jugoslava fece sì che l'ondata di violenza successiva all'8 settembre, per quanto sconvolgente, si dimensionasse principalmente come una decapitazione di classe dirigente e non come una mattanza indiscriminata – pur in presenza di alcuni episodi assai foschi – o come tentativo di sterminio etnico" (p. 101).
Un altro aspetto tipico, soprattutto della primavera 1945, fu l'arresto di civili, in base a indicazioni fornite dagli stessi quadri partigiani e grazie alle segnalazioni raccolte nei mesi precedenti grazie dall'OZNA, anche se non di rado tali elenchi nominativi erano caratterizzati dalla genericità e dall'approssimazione, che, sovente, non distinguevano la gravità delle colpe. Ciò che realmente contava era eliminare un numero quanto più importante di elementi effettivamente o potenzialmente ostili alla nuova realtà, al movimento partigiano, ai poteri popolari, al comunismo e all'annessione dei territori giuliani alla Jugoslavia. La ricerca delle singole responsabilità appariva perciò del tutto secondaria, si tendeva a colpire per lo più coloro che rappresentavano lo stato italiano ed il fascismo.
Vi furono anche casi in cui si eliminarono le parti ritenute "concorrenziali", come il caso degli autonomisti fiumani che "(…) vennero colpiti subito e con grande durezza proprio perché possedevano un'indubbia legittimità antifascista, che avrebbe potuto mettere in discussione la pretesa di monopolio dell'antifascismo che era tipica del Fronte di liberazione sloveno e croato" (p. 103). Nei giorni immediatamente successivi al venir meno delle ostilità la repressione fu attuata sulla base del semplice sospetto e con larga indifferenza per la verifica delle accuse, che rimandano ad un modello d'intervento di matrice staliniana, perciò, come scrisse Elio Apih, si dette inizio ad una "epurazione preventiva" che doveva aprire la strada alla presa del potere da parte dei comunisti.
Nella Venezia Giulia non vi fu solo un'occupazione militare, al contempo era in corso una rivoluzione che si stava affermando con i metodi tipici delle rivoluzioni vale a dire con un bagno di sangue. Le foibe furono prevalentemente un fenomeno di violenza dall'alto, e, secondo Pupo, tali soppressioni non erano finalizzate alla "pulizia etnica" degli Italiani della Venezia Giulia, ma, piuttosto, erano lo strumento per l'eliminazione di ogni ostacolo sulla via della costruzione del nuovo potere jugoslavo e comunista, e servivano altresì all'intimidazione generale del gruppo nazionale italiano, non certo per forzarlo ad abbandonare la regione ma, in primo luogo, per mostrare l'inutilità e la pericolosità di una qualsiasi forma di opposizione all'annessione.
Diverse letture
Un'altra pagina che caratterizzò il secondo dopoguerra adriatico fu certamente l'esodo, che interessò almeno un quarto di milione di persone, vale a dire la metà della popolazione regionale. Lo storico ricorda che "fu un fenomeno periodizzante – questo è l'aspetto più significativo – perché la scomparsa quasi integrale del gruppo nazionale italiano da alcune delle sue regioni di insediamento storico, rappresentò una frattura epocale per l'area altoadriatica, spezzando una continuità che durava dall'epoca della romanizzazione" (p. 112).