di Marco Grilli
"E adesso semo comò pagia al vento"; questo significativo passo della poesia "Cololtri", tratta dalle Elegie istriane di Biagio Marin, ha introdotto la conferenza "Istriano-dalmati tra espulsione, esilio, accoglienza", tenutasi nella sede fiorentina dell'Istituto storico della Resistenza in Toscana (ISRT) in occasione della Giornata del Ricordo 2009. L'iniziativa, patrocinata dalla Regione Toscana, l'Istituto storico suddetto, l'Istituto storico grossetano della Resistenza e dell'età contemporanea, in collaborazione col Dipartimento di storia dell'Università degli studi di Pisa ed il Centro per la didattica della storia della Provincia di Pisa, facente parte del ciclo d'attività didattiche proposte da tre anni per accrescere la conoscenza e promuovere le forme migliori di trasmissione di un segmento così importante nella storia italiana, ha permesso di fare il punto su alcune significative ricerche realizzate ed in corso di realizzazione sul tema del confine orientale.
Nella presentazione i relatori Ugo Caffaz della Regione Toscana, Cesare Angotti, Direttore generale dell'Ufficio scolastico Regionale, e Ivano Tognari-ni, Presidente dell'ISRT, hanno ribadito l'importanza della Giornata del Ricordo per approfondire temi e aspetti di una storia dolorosa a lungo taciuta, insistendo sulla fondamentale missione di valorizzare la ricerca storica documentaria, eliminando i facili revisionismi, le semplificazioni dei media e le strumentalizzazioni politiche. Una ricerca storica che oggi, pur soffrendo per le politiche dei tagli alla cultura, deve ricorrere alla molteplicità delle fonti disponibili e avvicinarsi a quella microstoria, fatta di localismi e memorie, così necessaria per la ricostruzione di un quadro generale esaustivo.
Interpretare il fenomeno sul lungo periodo
Un metodo che nel tema dell'esilio conduce alla ricerca minuziosa e diffusa sul territorio alla scoperta della storia degli esuli, dei loro nomi, del loro numero, del dramma dell'abbandono delle terre natie, fino all'analisi delle diverse forme d'assistenza e accoglienza. Tutto ciò tenendo fermo, come precisato dalla Direttrice dell'Isgrec Luciana Rocchi, "che la memoria collettiva non è la somma di tante memorie individuali, di tanti dolori e rancori, ma qualcosa di più complesso che si forma col contributo delle comunità, delle istituzioni, di un senso alto di responsabilità civile". Una storia dell'esilio che deve quindi interpretare il fenomeno sul lungo periodo, dal momento del passaggio dal concetto di nazionalità a quello di nazionalismo, considerando la mobilità di un confine non corrispondente ad una semplice linea, ed avvalendosi di un modello laborato-riale a livello didattico per la sua corretta diffusione.
La direttrice dell'Isgrec, felicitatasi per la pubblicazione degli atti del Convegno nazionale di Torino "Storia della frontiera orientale" (2005) da cui è partito il lavoro della Regione Toscana, ha comunicato anche l'inizio della realizzazione di un video didattico da parte dell'Istituto grossetano, che troverà ulteriore materiale nel corso del viaggio della memoria organizzato coi docenti della provincia per la fine di marzo.
L'interessante intervento di Costantino Di Sante, direttore dell'Istituto storico della Resistenza di Ascoli Piceno, sull'internamento ed espulsione di popolazione al confine orientale, ha focalizzato l'attenzione su due aspetti fondamentali della storia del '900: l'idea di confine nazionale come confine etnico e la creazione di campi di concentramento e campi profughi, definiti dal sociologo tedesco Baumann come non luoghi di lungo periodo. Il sistema d'internamento, regolato dalla Convenzione di Ginevra del 1929, che prevedeva la possibilità di spostare le popolazioni ritenute pericolose in contingenze belliche all'interno dello Stato, fu gestito dal Ministero dell'Interno italiano con la costituzione di campi nel sud della penisola, ma subì una brusca sferzata al momento dell'invasione della Jugoslavia nel 1941, quando, in nome del confine etnico, prevalse l'idea di occupare altri territori dando origine a massicce deportazioni e spostamenti di popolazioni locali (Lubiana, zone della Dalmazia) in favore dell'elemento italiano.
Sorsero così nuovi campi d'internamento nella Jugoslavia occupata, gestiti direttamente dall'autorità militare, tra cui quello tristemente noto di Arbe (Rab) dove furono deportati circa 10.000 civili tra il luglio 1942 ed il settembre 1943 (circa 1.400, tra cui molti anziani e bambini, morirono nell'inverno di freddo, fame e stenti). Di Sante si è soffermato sulla figura del Gen. Roatta, ricordando la Circolare 3 C del 1942 che, al di fuori del regolamento internazionale, prevedeva incendi di villaggi, uccisioni di ostaggi e deportazioni di persone non implicate negli eventi bellici, e le sue memorie che, per emulazione degli orrori dei tedeschi in Slovenia orientale, ricordavano la necessità di sgomberare le zone delle province annesse in favore delle vittime italiane, ossia famiglie di feriti e caduti. Un progetto fallito per le carenze organizzative, la guerriglia partigiana ed il precipitare degli eventi bellici. Italiani non proprio "brava gente" se pensiamo poi al trattamento dei prigionieri di guerra delle zone occupate, tra cui gli jugoslavi, privati delle tutele della convenzione di Ginevra ed in molti casi tradotti al lavoro coatto in Italia (ad esempio nella trebbiatura in Toscana o alle dipendenze dell'industriale Falck) per sostituire gli uomini impegnati al fronte. Una forza che svolse un ruolo importante all'indomani dell'armistizio dell'otto settembre nelle file della Resistenza italiana, soprattutto in Abruzzo e nell'appennino umbro-marchigiano. Di Sante ha chiuso il suo intervento ricordando gli ustascia ed i cetnici presenti in Italia che rifiutarono il rientro in Jugoslavia dopo la fine della guerra per non incorrere in processi sommari, mentre Tito, in attesa di una loro consegna da parte delle autorità italiane, rinchiuse nei suoi campi i soldati italiani presenti nei Balcani.
Vorticosa successione di nazionalismi e totalitarismi
Il confine orientale: una storia di orrori e tragedie interpretabile nella sua complessità come laboratorio della storia europea del '900, da analizzare nel lungo periodo con la vorticosa successione di nazionalismi, guerre, stati totalitari e spostamenti di confini, che ci porta infine al drammatico viaggio di non ritorno degli esuli istriano-dalmati. Enrico Miletto, ricercatore dell'Istituto storico della Resistenza di Torino e autore di numerose pubblicazioni sul tema, ha fornito un quadro ampio ed esaustivo della vicenda degli esuli in Piemonte. Il lavoro degli Istituti storici di Torino e Vercelli, frutto di lunghe ricerche condotte ad ampio raggio, si è avvalso del recupero della memoria viva degli esuli con accurate interviste, restituendoci un affresco emozionante e prezioso sulla "comunità dispersa". Sui circca 280.000 esuli che raggiunsero l'Italia, 80.000 si divisero tra l'Istria ed il Friuli mentre all'anno 1958 più di 12.000 risultarono sull'intero territorio piemontese (0,5% della popolazione) dove furono costituiti ben tre centri di raccolta, rispettivamente a Torino, Novara e Tortona. Il dramma degli esuli si concentra in due momenti, la partenza, dovuta a molteplici cause (instaurazione del regime comunista in Jugoslavia, ricordo delle foibe, motivi d'ordine economico sociale e culturale ecc.) e l'arrivo, segnato dalle questioni dell'assistenza e dell'accoglienza. Miletto ha descritto efficacemente un contesto di precarietà, indigenza, forzata promiscuità e mancanza di elementari condizioni igienico-sanitarie, in un senso generale d'incompletezza e provvisorietà.
Microcosmi giuliani
Perfino nelle scuderie di Racconigi furono alloggiate alcune famiglie di profughi di Zara, accanto alle grandi concentrazioni ecco quindi l'universo parallelo dei "microcosmi giuliani", insediamenti sparsi e isolati, realtà di segregazione ma d'immutato amore per le terre natìe. In Piemonte Miletto ha registrato la prevalenza di una logica assistenzialista (garantita dall'aiuto dei privati e delle istituzioni locali, quali il Ministero dell'Assistenza post-bellica, l'Opera per l'assistenza ai profughi giuliano-dalmati e gli enti cattolici) che ha garantito condizioni di sopravvivenza ma non il perfetto inserimento nel contesto socio-economico locale. Un atteggiamento che ha trovato eco nel contesto dell'accoglienza, definita a doppio binario per l'alternarsi di gare di solidarietà a episodi di discriminazione e pregiudizio, specialmente negli ambienti operai e più vicini al Partito Comunista, che insistettero a lungo nella facile equazione esuli=fascisti e quindi nemici politici e potenziale bacino d'utenza per la destra reazionaria. Una realtà dura che conobbe nel tempo graduali miglioramenti grazie a tre fondamentali momenti d'integrazione: il lavoro, il tempo libero (in primo luogo il ballo e lo sport) ed infine le prime celebrazioni dei matrimoni misti.
La conferenza si è chiusa focalizzando l'interesse sulla vicenda degli istriano-dalmati in Toscana (dove alla metà degli anni '50 si trovavano già ben 6.074 esuli) presentando gli sviluppi delle ricerche su Pisa e Grosseto, condotte rispettivamente da Francesca Cappella della Scuola Normale Superiore di Pisa e Laura Benedettel-li dell'Isgrec. Nel primo caso la ricercatrice ha realizzato sette approfondite interviste, "storie di straordinaria ordinarietà" che, dalle vive e sofferte memorie individuali, hanno permesso di costituire un quadro d'insieme in grado di far emergere il disagio per la partenza, i difficili rapporti con gli slavi per le differenze socio-economiche e culturali, la percezione positiva del fascismo come portatore dell'idea di patria-territorio-nazionalità ed infine il momento critico della guerra ed il ricordo drammatico della repressione ti-tina. A Pisa risultarono 2.250 esuli già alla data del 20/3/1947, il campo di Migliarino, ex base dell'aviazione USA e costituito da baracche di legno, fu smantellato nel 1952, quando gli esuli furono trasferiti a Calambrone.
Nel grossetano, così come a Pistoia ed a Siena, non esistevano invece centri di raccolta profughi. I primi risultati della ricerca in corso hanno rivelato che i primi arrivi nel capoluogo maremmano si registrarono nel 1944 e continuarono fino agli anni '60 per una consistenza numerica di circa 200 persone (44 già censite dall'Isgrec). In parte si trattò di arrivi isolati caratterizzati dal ritorno alle famiglie d'origine (molti maremmani erano emigrati per lavoro in Istria) mentre altri che furono oggetto dello smistamento operato dalle autorità trovarono alloggio alla periferia della città, come i profughi dalla Libia, nel quartiere degli sfrattati o al Villaggio Curiel.
La giornata si è rivelata un momento di riflessione importante che ha inteso anche contrastare la riduzione del peso della storia nella scuola italiana, una grave perdita per l'educazione critica e la coscienza di cittadinanza.
Un altro aspetto importante è che si tratta di un esodo totale, ma non di tutta la popolazione residente nell'area bensì di un'intera componente nazionale cioè quella italiana. "Ciò che mosse le decisioni collettive di esodare, che riguardavano intere comunità – paesi o addirittura città – non fu rinstaurazione del potere jugoslavo, ma la consapevolezza che tale potere era divenuto definitivo" (pp. 113-114). Sul versante dell'interpretazione è fondamentale chiedersi se l'esodo debba essere considerato come il frutto di decisioni inarrestabili oppure come il risultato di una pressione espulsiva irresistibile. "È un nodo interpretativo di fondo dell'intera vicenda dell'esodo, è ben vero che contro gli italiani non venne mai messa in opera una legislazione di tipo espulsivo, come accadde invece per i tedeschi nella stessa Jugoslavia ed in altri paesi europei; ma è vero anche che il meccanismo delle opzioni faceva sì che, per provocare l'allontanamento di massa del gruppo nazionale italiano, risultassero sufficienti le pressioni ambientali, e che esse ci siano state, e ben massicce, ce lo conferma un'infinità di testimonianze" (p. 114).
Raoul Pupo sostiene che "tutto questo però non basta ancora per affermare che l'esodo sia stato frutto di un disegno preordinato di espulsione della componente italiana da parte delle autorità jugoslave" (p. 115). Per comprendere il fenomeno è fondamentale lo studio della politica della cosiddetta "fratellanza italo-jugoslava", delle sue ragioni, dei suoi limiti e del suo fallimento. Per capire l'esodo non è sufficiente considerare esclusivamente la dimensione politico-ideologica, ma bisogna considerare anche il problema dell'impossibilità di mantenere, nelle condizioni offerte dallo stato jugoslavo, la propria identità nazionale, ma anche quel "(… ) complesso di modi di vivere e sentire, secolarmente sedimentati, che danno significato all'esistenza di una comunità" (p. 121).
Il volume contiene ancora altri due contributi e cioè "Tempi nuovi, uomini nuovi. La classe dirigente amministrativa a Trieste, 1945-1956" (pp. 129-180) e "La Commissione storico-culturale italo-slovena (pp. 181-203), il cui autore, ricordiamolo, fu uno dei componenti. L'opera si conclude con una sezione cartografica in cui è possibile cogliere i cambiamenti verificatisi nell'area presa in esame e il mutamento dei confini dal 1866 ai giorni nostri.