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Istriano-dalmati tra espulsione, esilio, accogliena (Voce in più Storia 07 mar)

di Marco Grilli

"E adesso semo comò pagia al ven­to"; questo significativo passo della poesia "Cololtri", tratta dalle Elegie istriane di Biagio Marin, ha introdotto la conferenza "Istriano-dalmati tra espulsione, esi­lio, accoglienza", tenutasi nella sede fiorentina dell'Istituto storico della Resistenza in Toscana (ISRT) in occasione della Giornata del Ricordo 2009. L'iniziativa, patrocinata dalla Regione To­scana, l'Istituto storico suddetto, l'Istituto storico grossetano della Resistenza e dell'età contempo­ranea, in collaborazione col Dipartimento di sto­ria dell'Università degli studi di Pisa ed il Cen­tro per la didattica della storia della Provincia di Pisa, facente parte del ciclo d'attività didattiche proposte da tre anni per accrescere la conoscenza e promuovere le forme migliori di trasmissione di un segmento così importante nella storia italia­na, ha permesso di fare il punto su alcune signifi­cative ricerche realizzate ed in corso di realizza­zione sul tema del confine orientale.

Nella pre­sentazione i relatori Ugo Caffaz della Regione Toscana, Cesare Angotti, Direttore generale del­l'Ufficio scolastico Regionale, e Ivano Tognari-ni, Presidente dell'ISRT, hanno ribadito l'impor­tanza della Giornata del Ricordo per approfon­dire temi e aspetti di una storia dolorosa a lungo taciuta, insistendo sulla fondamentale missione di valorizzare la ricerca storica documentaria, eliminando i facili revisionismi, le semplificazio­ni dei media e le strumentalizzazioni politiche. Una ricerca storica che oggi, pur soffrendo per le politiche dei tagli alla cultura, deve ricorrere alla molteplicità delle fonti disponibili e avvicinarsi a quella microstoria, fatta di localismi e memorie, così necessaria per la ricostruzione di un quadro generale esaustivo.

Interpretare il fenomeno sul lungo periodo

Un metodo che nel tema dell'esilio conduce alla ricerca minuziosa e diffusa sul territorio alla scoperta della storia degli esuli, dei loro nomi, del loro numero, del dramma dell'abbandono delle terre natie, fino all'analisi delle diverse for­me d'assistenza e accoglienza. Tutto ciò tenendo fermo, come precisato dalla Direttrice dell'Isgrec Luciana Rocchi, "che la memoria collettiva non è la somma di tante memorie individuali, di tan­ti dolori e rancori, ma qualcosa di più complesso che si forma col contributo delle comunità, delle istituzioni, di un senso alto di responsabilità civi­le". Una storia dell'esilio che deve quindi inter­pretare il fenomeno sul lungo periodo, dal mo­mento del passaggio dal concetto di nazionalità a quello di nazionalismo, considerando la mobilità di un confine non corrispondente ad una sempli­ce linea, ed avvalendosi di un modello laborato-riale a livello didattico per la sua corretta diffu­sione.

La direttrice dell'Isgrec, felicitatasi per la pubblicazione degli atti del Convegno nazionale di Torino "Storia della frontiera orientale" (2005) da cui è partito il lavoro della Regione Toscana, ha comunicato anche l'inizio della realizzazione di un video didattico da parte dell'Istituto grosse­tano, che troverà ulteriore materiale nel corso del viaggio della memoria organizzato coi docenti della provincia per la fine di marzo.
L'interessante intervento di Costantino Di San­te, direttore dell'Istituto storico della Resistenza di Ascoli Piceno, sull'internamento ed espulsione di popolazione al confine orientale, ha focalizza­to l'attenzione su due aspetti fondamentali della storia del '900: l'idea di confine nazionale come confine etnico e la creazione di campi di concen­tramento e campi profughi, definiti dal sociologo tedesco Baumann come non luoghi di lungo perio­do. Il sistema d'internamento, regolato dalla Con­venzione di Ginevra del 1929, che prevedeva la possibilità di spostare le popolazioni ritenute pe­ricolose in contingenze belliche all'interno dello Stato, fu gestito dal Ministero dell'Interno italiano con la costituzione di campi nel sud della penisola, ma subì una brusca sferzata al momento dell'inva­sione della Jugoslavia nel 1941, quando, in nome del confine etnico, prevalse l'idea di occupare al­tri territori dando origine a massicce deportazioni e spostamenti di popolazioni locali (Lubiana, zone della Dalmazia) in favore dell'elemento italiano.

Sorsero così nuovi campi d'internamento nella Jugoslavia occupata, gestiti direttamente dall'au­torità militare, tra cui quello tristemente noto di Arbe (Rab) dove furono deportati circa 10.000 ci­vili tra il luglio 1942 ed il settembre 1943 (circa 1.400, tra cui molti anziani e bambini, morirono nell'inverno di freddo, fame e stenti). Di Sante si è soffermato sulla figura del Gen. Roatta, ricordando la Circolare 3 C del 1942 che, al di fuori del regolamento internazionale, prevedeva incen­di di villaggi, uccisioni di ostaggi e deportazioni di persone non implicate negli eventi bellici, e le sue memorie che, per emulazione degli orro­ri dei tedeschi in Slovenia orientale, ricordavano la necessità di sgomberare le zone delle province annesse in favore delle vittime italiane, ossia fa­miglie di feriti e caduti. Un progetto fallito per le carenze organizzative, la guerriglia partigiana ed il precipitare degli eventi bellici. Italiani non pro­prio "brava gente" se pensiamo poi al trattamento dei prigionieri di guerra delle zone occupate, tra cui gli jugoslavi, privati delle tutele della conven­zione di Ginevra ed in molti casi tradotti al lavo­ro coatto in Italia (ad esempio nella trebbiatura in Toscana o alle dipendenze dell'industriale Falck) per sostituire gli uomini impegnati al fronte. Una forza che svolse un ruolo importante all'indomani dell'armistizio dell'otto settembre nelle file della Resistenza italiana, soprattutto in Abruzzo e nel­l'appennino umbro-marchigiano. Di Sante ha chiuso il suo intervento ricordando gli ustascia ed i cetnici presenti in Italia che rifiutarono il rientro in Jugoslavia dopo la fine della guerra per non in­correre in processi sommari, mentre Tito, in attesa di una loro consegna da parte delle autorità italia­ne, rinchiuse nei suoi campi i soldati italiani pre­senti nei Balcani.

Vorticosa successione di nazionalismi e totalitarismi

Il confine orientale: una storia di orrori e tra­gedie interpretabile nella sua complessità come laboratorio della storia europea del '900, da ana­lizzare nel lungo periodo con la vorticosa suc­cessione di nazionalismi, guerre, stati totalitari e spostamenti di confini, che ci porta infine al drammatico viaggio di non ritorno degli esuli istriano-dalmati. Enrico Miletto, ricercatore del­l'Istituto storico della Resistenza di Torino e au­tore di numerose pubblicazioni sul tema, ha for­nito un quadro ampio ed esaustivo della vicen­da degli esuli in Piemonte. Il lavoro degli Istituti storici di Torino e Vercelli, frutto di lunghe ricer­che condotte ad ampio raggio, si è avvalso del recupero della memoria viva degli esuli con ac­curate interviste, restituendoci un affresco emo­zionante e prezioso sulla "comunità dispersa". Sui circca 280.000 esuli che raggiunsero l'Italia, 80.000 si divisero tra l'Istria ed il Friuli mentre all'anno 1958 più di 12.000 risultarono sull'in­tero territorio piemontese (0,5% della popolazio­ne) dove furono costituiti ben tre centri di raccol­ta, rispettivamente a Torino, Novara e Tortona. Il dramma degli esuli si concentra in due momenti, la partenza, dovuta a molteplici cause (instaura­zione del regime comunista in Jugoslavia, ricor­do delle foibe, motivi d'ordine economico socia­le e culturale ecc.) e l'arrivo, segnato dalle que­stioni dell'assistenza e dell'accoglienza. Miletto ha descritto efficacemente un contesto di preca­rietà, indigenza, forzata promiscuità e mancanza di elementari condizioni igienico-sanitarie, in un senso generale d'incompletezza e provvisorietà.

Microcosmi giuliani

Perfino nelle scuderie di Racconigi furono alloggiate alcune famiglie di profughi di Zara, accanto alle grandi concentrazioni ecco quindi l'universo parallelo dei "microcosmi giuliani", insediamenti sparsi e isolati, realtà di segregazione ma d'immutato amore per le terre natìe. In Pie­monte Miletto ha registrato la prevalenza di una logica assistenzialista (garantita dall'aiuto dei pri­vati e delle istituzioni locali, quali il Ministero del­l'Assistenza post-bellica, l'Opera per l'assistenza ai profughi giuliano-dalmati e gli enti cattolici) che ha garantito condizioni di sopravvivenza ma non il perfetto inserimento nel contesto socio-eco­nomico locale. Un atteggiamento che ha trovato eco nel contesto dell'accoglienza, definita a dop­pio binario per l'alternarsi di gare di solidarietà a episodi di discriminazione e pregiudizio, special­mente negli ambienti operai e più vicini al Parti­to Comunista, che insistettero a lungo nella facile equazione esuli=fascisti e quindi nemici politici e potenziale bacino d'utenza per la destra reaziona­ria. Una realtà dura che conobbe nel tempo gra­duali miglioramenti grazie a tre fondamentali mo­menti d'integrazione: il lavoro, il tempo libero (in primo luogo il ballo e lo sport) ed infine le prime celebrazioni dei matrimoni misti.

La conferenza si è chiusa focalizzando l'inte­resse sulla vicenda degli istriano-dalmati in To­scana (dove alla metà degli anni '50 si trovava­no già ben 6.074 esuli) presentando gli sviluppi delle ricerche su Pisa e Grosseto, condotte rispet­tivamente da Francesca Cappella della Scuola Normale Superiore di Pisa e Laura Benedettel-li dell'Isgrec. Nel primo caso la ricercatrice ha realizzato sette approfondite interviste, "storie di straordinaria ordinarietà" che, dalle vive e soffer­te memorie individuali, hanno permesso di costi­tuire un quadro d'insieme in grado di far emer­gere il disagio per la partenza, i difficili rapporti con gli slavi per le differenze socio-economiche e culturali, la percezione positiva del fascismo come portatore dell'idea di patria-territorio-na­zionalità ed infine il momento critico della guer­ra ed il ricordo drammatico della repressione ti-tina. A Pisa risultarono 2.250 esuli già alla data del 20/3/1947, il campo di Migliarino, ex base dell'aviazione USA e costituito da baracche di legno, fu smantellato nel 1952, quando gli esuli furono trasferiti a Calambrone.

Nel grossetano, così come a Pistoia ed a Sie­na, non esistevano invece centri di raccolta pro­fughi. I primi risultati della ricerca in corso han­no rivelato che i primi arrivi nel capoluogo ma­remmano si registrarono nel 1944 e continuarono fino agli anni '60 per una consistenza numerica di circa 200 persone (44 già censite dall'Isgrec). In parte si trattò di arrivi isolati caratterizzati dal ritorno alle famiglie d'origine (molti maremma­ni erano emigrati per lavoro in Istria) mentre al­tri che furono oggetto dello smistamento opera­to dalle autorità trovarono alloggio alla periferia della città, come i profughi dalla Libia, nel quar­tiere degli sfrattati o al Villaggio Curiel.

La giornata si è rivelata un momento di rifles­sione importante che ha inteso anche contrastare la riduzione del peso della storia nella scuola ita­liana, una grave perdita per l'educazione critica e la coscienza di cittadinanza.

Un altro aspetto importante è che si tratta di un esodo totale, ma non di tutta la popolazione residente nell'area bensì di un'intera componente na­zionale cioè quella italia­na. "Ciò che mosse le de­cisioni collettive di esodare, che riguardavano intere co­munità – paesi o addirittura città – non fu rinstaurazione del potere jugoslavo, ma la consapevolezza che tale potere era divenuto definitivo" (pp. 113­-114). Sul versante dell'interpreta­zione è fondamentale chiedersi se l'esodo debba essere considerato come il frutto di decisioni inarre­stabili oppure come il risultato di una pressione espulsiva irresisti­bile. "È un nodo interpretativo di fondo dell'intera vicenda dell'eso­do, è ben vero che contro gli italia­ni non venne mai messa in opera una legislazione di tipo espulsivo, come accadde invece per i tede­schi nella stessa Jugoslavia ed in altri paesi europei; ma è vero an­che che il meccanismo delle opzio­ni faceva sì che, per provocare l'al­lontanamento di massa del gruppo nazionale italiano, risultassero suf­ficienti le pressioni ambientali, e che esse ci siano state, e ben mas­sicce, ce lo conferma un'infinità di testimonianze" (p. 114).

Raoul Pupo sostiene che "tutto questo però non basta ancora per affermare che l'esodo sia stato frutto di un disegno preordinato di espulsione della componente italiana da parte delle autorità jugoslave" (p. 115). Per comprendere il fenomeno è fondamentale lo studio della po­litica della cosiddetta "fratellanza italo-jugoslava", delle sue ragioni, dei suoi limiti e del suo fallimento. Per capire l'esodo non è sufficiente considerare esclusivamente la di­mensione politico-ideologica, ma bisogna considerare anche il pro­blema dell'impossibilità di mante­nere, nelle condizioni offerte dallo stato jugoslavo, la propria identi­tà nazionale, ma anche quel "(… ) complesso di modi di vivere e sen­tire, secolarmente sedimentati, che danno significato all'esistenza di una comunità" (p. 121).

Il volume contiene ancora altri due contributi e cioè "Tempi nuovi, uomini nuovi. La classe diri­gente amministrativa a Trieste, 1945-1956" (pp. 129-180) e "La Commissione storico-culturale italo-slovena (pp. 181-203), il cui autore, ricordiamolo, fu uno dei componenti. L'opera si conclude con una sezione cartografica in cui è possibile cogliere i cambiamenti verificatisi nell'area presa in esa­me e il mutamento dei confini dal 1866 ai giorni nostri.

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