Proponiamo un articolo di Annamaria Crasti (ANVGD Milano) che ringraziamo per la gentile concessione sulla “Domenica delle scope” un evento avvenuto nell’Agosto del 1950. Molti goriziani rimasti nella Jugoslavia di Tito superarono il confine non solo per riabbracciare parenti, amici ma fecero incetta di acquisti è l’articolo più venduto nella nuova Gorizia fu una scopa di saggina.
«Siamo a Gorizia. È il 13 agosto 1950. Dal 10 febbraio 1947 la Gorizia di sempre non esiste più. Crudelmente, come deciso dal Trattato di Pace, nella notte tra il 14 e 15 settembre 1947 la città si è trovata divisa. Gli abitanti di alcune zone della città non riescono a dormire quella notte: sentono, incessante, un suono sordo tum tum tum, incomprensibile.
Capiranno al loro risveglio che quel rumore che impediva loro di dormire era l’inizio della fine di una comunità legata da parentele, da amicizie profonde, da vincoli strettissimi formatisi nel corso di secoli di pacifica convivenza.
Era nata Nova Gorica (accento sulla i- come la pronuncia l’attuale Sindaco Rodolfo Ziberna), una città fantasma, popolata da uomini donne bambini anziani straniti, spaventati, rassegnati. Una città governata dalla Jugoslavia dove i graniciari (le guardie confinarie)armati di fucile sparavano a chiunque si avvicinava al filo spinato, anche solo per uno sguardo un sorriso un saluto scambiati tra nonni e nipoti, tra fratelli, tra cugini, tra amici, da metri di distanza, fatti con il cuore straziato da una lontananza imposta e mai accettata.
Ma non è solo questo. Le due realtà sono diverse: Gorizia dove si vive liberi, non in ricchezza ma con una decente vita assicurata, dove gli abitanti passeggiano sereni per i viali guardando le vetrine dei negozi che incominciano a riempirsi, anche di cose superflue ma che rendono la vita più piacevole. Nova Gorica, squallida città dove si vive di paura miseria e duro lavoro.
I rapporti tra Italia e Federativa jugoslava non sono facili. Quei confini che dividono paesi e cittadine in Istria e Friuli imposti dal Diktat, la presenza, in Patria, degli Esuli troppo ingombranti, l’arrivo continuo di nuovi che si fermerà intorno al 1954 con il ritorno di Trieste all’Italia, quella neppur tanto nascosta pretesa titina su una Trieste jugoslava rendono i rapporti tra i due paesi estremamente difficili.
Ma si incominciano delle trattative segrete che sfociano nella domenica del 13 agosto 1950: per tutta una giornata il filo spinato non esisterà più, per quella giornata le impazienti dita dei graniciari non premeranno sul grilletto del mitra seminando terrore …e odio.
Quella è una domenica speciale, è l’antivigilia di Ferragosto ed i negozi sono eccezionalmente aperti; anche quelli i cui proprietari avevano deciso di tener chiusi, improvvisamente aprono precipitosamente le saracinesche: Gorizia è pacificamente invasa da migliaia di persone che hanno bisogno di tutto pasta caffè detersivi filo per cucire pettini… e abbracci. Infiniti abbracci che non finiscono mai. Dopo tre lunghi anni durante i quali perfino un sorriso fatto a metri di distanza poteva costare la vita, gli innamorati si ritrovano, quasi intimiditi, le nonne quasi non riconoscono quei bambini che si buttano loro al collo: sono cresciuti senza di loro. Sono scene di indescrivibile tenerezza, le lacrime scorrono abbondanti, non basta darsi la mano: c’è l’urgenza di stringersi di toccarsi di guardarsi, di recuperare quel prezioso tempo perduto che non riavranno mai.
Ma non basta. È mattina e molti goriziani jugoslavi non vanno in Chiesa e non assistono alla Messa da anni. Il regime cui sottostanno lo vieta, pena la prigione, ma anche volessero andarci, non lo potrebbero fare perchè le chiese sono chiuse, sbarrate; molti preti sono stati uccisi, anche slavi, il cardinale Stepinac, primate di Croazia è in prigione e vi resterà per una ventina di anni.
E allora si precipitano verso il Duomo e possono assistere alla Messa cantata e si commuovono riaccostandosi ai sacramenti, potendo liberamente pregare. E non basta. Dopo gli abbracci, dopo la Messa si precipitano in tutti i negozi della città, di qualsiasi genere e li vuotano. La merce che va a ruba sono le scope di saggina, ecco perchè quel 13 agosto si chiamerà la domenica delle scope. Si narra che il primo negozio preso d’assalto sia stata la drogheria Podgornik che esponeva proprio quelle scope.
Quelli che hanno pochi soldi da spendere si sono portati dietro patate e cipolle quale merce di scambio. Da vecchi portafogli escono le lire del Governo militare alleato- GMA- e perfino le italiane lire d’argento con l’aquilotto uscite alla fine della Prima Guerra Mondiale. Si spende tutto il denaro che si ha.
Alcuni sono delusi, la Cassa di Risparmio è chiusa; avrebbero voluto versarvi le loro lire nel timore fossero requisite o fossero costretti al cambio con il dinaro, che consideravano quasi carta straccia.
E ancora non basta. Nelle ferramenta si comprano viti, bulloni, chiodi; si va dal vecchio barbiere; si corre nella pasticceria dove si era assaggiato, da bambini, il primo gelato; molti piccoli, stupiti dalla novità, si dimenticano di leccarlo e lo fanno sciogliere; l’espresso viene centellinato: lo si beve in un quarto d’ora per gustarlo e assaporarne l’aroma. E mangiano il pane! Lo mangiano camminando per strada ad occhi chiusi: è il gusto di casa, della loro casa.
È un ritorno al passato, nostalgico, quasi a rivivere per poche ore la vita di una volta. Finiti gli acquisti, oculati, si ritrovano in tasca ancora qualche moneta. Servirà nei bar e soprattutto, nelle osteria-ad esempio l’osteria della Casa Rossa- dove si sono dati appuntamento con gli amici e i parenti per abbondanti libagioni e cantare, cantare ancora assieme in coro le vecchie canzoni, con gli occhi lucidi, con il cuore sopraffatto dalla gioia e dal dolore: fra poco, a sera, tutto finirà; il ritorno a Nova Gorica significherà tornare alla tristezza di una grigia quotidianità privata degli affetti più cari e del bene più prezioso: la libertà.
Si riattraversano i valichi della Casa Rossa e della Transalpina, con la morte nel cuore. Per tutta la giornata i soldati italiani hanno controllato strade e piazze scorrazzando sulle loro jeep per impedire che qualche goriziano ma anche qualche fiumano, involontario jugoslavo, si imboscasse.
Non si può e non si devono assecondare evasioni. Determinerebbero nuovi problemi e attriti lungo il confine e si deve onorare il patto fatto con la Federativa. Nonostante tanta attenzione per alcuni giorni vengono ritrovati degli evasi a Venezia.
Visti da lontano, coloro che ritornavano apparivano come un’armata stanca, un vero esercito con il fucile sulla spalla; ma quelle che sembravano armi erano solo scope, scope di saggina, innumerevoli centinaia di scope di saggina, merce rara in Jugoslavia, divenute la bandiera di una memorabile indimenticabile giornata vissuta in quella che ancora consideravano la loro Patria.
Quelle scope avrebbero ricordato, se ce ne fosse stato bisogno, che vivevano in un mondo dove il benessere non esisteva: sarebbe arrivato molto più tardi, ma non lo sapevano».
Anna Maria Crasti – 12/08/2021
Fonte: Varese In Luce, Como Live, Resegone Online, Valtellina News
Segnaliamo, inoltre, l’opera di Roberto Covaz, La domenica delle scope e altre storie di confine, Leg, Gorizia 2012.
A ridosso dell’impenetrabile confine tra Gorizia e la neonata Nova Gorica, domenica 13 agosto 1950, accade un evento straordinario. A migliaia, i goriziani rimasti in Jugoslavia dopo il 17 settembre 1947 superano il confine per tornare ad abbracciare amici, parenti e fidanzate, incuranti dei fucili dei soldati jugoslavi, i graniciari, ferrei controllori della frontiera tra l’Occidente democratico e la repubblica di Tito, avamposto dell’Est europeo. Durante la loro permanenza a Gorizia, gli jugoslavi si disperdono nei caffè cittadini, nelle osterie e nei negozi, rimasti aperti nell’imminenza del Ferragosto. È una giornata di festa interminabile, vissuta all’insegna dell’eccesso e degli acquisti. Gli empori vengono letteralmente vuotati perché al di là della frontiera, in una Nova Gorica ancora in fase di costruzione e nei paesi limitrofi, c’è poco o nulla da comprare. Nemmeno una semplice scopa di saggina, l’articolo che più di tutti verrà acquistato fino a divenire il simbolo di quel memorabile giorno a Gorizia. In questo libro lo sguardo partecipe di Roberto Covaz si posa con leggerezza su una molteplicità di personaggi e vicende, ora curiose ora amare, che compongono un racconto-mosaico in grado di condurci all’essenza dell’idea di confine.