Com’è strano recuperare fatti della propria gioventù o addirittura della propria infanzia, che paiono cresciuti nel contrasto dell’esistenza che tende a dimenticare nomi e circostanze più recenti. Eppure non è assolutamente raro. Me l’ha detto un fisiologo, suggerendomi addirittura di insistere nello scavare nei ricordi che aiutano a concretizzare la propria personalità. Non posso dire di credere in assoluto a tale pensiero, ma questa filosofia mi ha stimolato a trarre quadri pittorici che da ottant’anni erano rimasti nascosti nella mia mente e che ogni tanto bussavano cercando di scuotermi dalla mia indifferenza. Mi sono sembrati tinti di quella semplice coreografia con la quale un bambino cresce e comprende, senza peraltro farci caso, l’importanza del suo “passato”. E mi sono detto: ma perché non raccontare, mescolando tempi e fatti assolutamente accaduti, come un pot-pourri dove l’azione si mescola al tempo e al luogo.
Crescere in Belvedere
Il tempo correva tra le ombre tristi della guerra e il luogo felice della mia città. Io ne ero l’attore, come lo può essere un bambino di circa otto anni. Vivevo a Fiume in zona Belvedere. La mia città natale era avvolta anch’essa nelle ombre della guerra che io non percepivo oscure come le persone di una certa età. Ciò mi consentiva di osservare e registrare avvenimenti sicuramente pericolosi e tragici e mescolarli con avventure che percorrevano la spensieratezza e l’incoscienza della giovane età. Al pianterreno del palazzo accanto al mio abitavano mio nonno e mia zia, due persone dalle quali ho avuto sicuramente affetto e insegnamenti che mi hanno guidato nel mio cammino. I carretti con le ruote a sfera…Era il tempo in cui noi ragazzi impazzivamo per il carretto con le ruote a sfera e mio nonno, che era un bravissimo artigiano, me ne costruì uno robustissimo sul quale, quasi ogni giorno, facevo delle corse folli lungo la mia via che iniziava con una vivace discesa, per finire in pendenza davanti alla porta carraia di quello che allora si chiamava Campo Balilla. Questo carretto produceva in corsa un rumore assordante e io lo usavo quasi sempre nel primo pomeriggio, quando mio nonno faceva un pisolino. Passavo sotto le finestre della sua camera al pianterreno e lui ovviamente si svegliava. Lo sentii dire un giorno a mia zia: Maledetto mulo el me sveia ogni giorno; e mia zia di rimando rispondergli: Ma ti ghe lo ga fato ti, cosa ti brontoli!… e le cerbottaneForse per rimediare a quel pensiero, ma non ci crederei troppo, tempo dopo mi fece un altro regalo. In autunno scoppiò la mania delle stukanize. Cerbottane che sparavano bacche di alloro grazie a un sistema ad aria che veniva compressa nella canna. Il corpo della stukaniza era ricavato dal ramo cavo dell’albero di sambuco, e a tanti mancavano i rami più bassi… Mio nonno trovò un sistema, tramite un pistone con il terminale di tenuta che comprimeva l’aria interna e spingeva violentemente il proiettile-bacca a una velocità maggiore a quella delle cerbottane fatte artigianalmente dai ragazzi. Nel darmela mi disse: Sta atento, la pol far mal. E mia zia di rimando: Ma perché ti ghe la ga fata, ostia. Che battaglie fra noi ragazzi quell’autunno, sintantoché gli alberi di alloro avevano le bacche. Facevano un po’ male davvero le stukanize e avevamo tanti segni delle battaglie sulla pelle, come l’avevano anche degli estranei che non c’entravano e che se ci prendevano requisivano i nostri “cannoncini”.
Gli arnesi del nonno
Andavo spesso a casa di mio nonno, perché in un angolo del grande bagno aveva sistemato una rastrelliera colma di ogni sorta di attrezzi necessari per i suoi molteplici lavori di artigianato. Io che giocavo nella via trovavo la scusa di andare al gabinetto e mi chiudevo dentro per guardare e toccare quell’insieme di strumenti sistemati con perfetta simmetria. Ero affascinato, come lo sono in parte anche ora, da quei attrezzi puliti e scintillanti e ovviamente combinavo dello scompiglio. Se ne accorgeva subito mio nonno e diceva a mia zia: De novo, el me ga tirà zo tuti i ordegni. Ma perché nol va a pisar a casa sua. Mia zia non gli rispondeva. Lo guardava e scuoteva la testa. Raccontava poi il fatto a mia mamma, sua sorella e ridevano.
Nuotare, che passione
L’estate era trascorsa con una novità per me. Avevo scoperto di saper nuotare, o meglio stare a galla anche senza avere mai provato a farlo. Si andava all’alba al Bagno Jadran, a Sušak. Una scarpinata notevole fatta a quell’ora perché mia zia non sopportava il sole che le scottava la pelle. Quando giungevo in riva al mare non resistevo e mi tuffavo immediatamente ed è così che io e i miei familiari restammo colpiti di questa mia dote che nessuno riusciva a comprendere. Ritornando a casa, attraversavamo mezza città e ricordo un profumo che mio padre chiamava odore che aleggiava per tutti i rioni. Un profumo denso e persistente, a tratti forte e persino invadente. Era il profumo degli sgombri, pescati in grandissime quantità in quel periodo e preparati in savor in quasi tutte le case. Ricordo il fascino delle giostre a Scoietto. Le gite in bici con i miei e gli amici di famiglia fino a Cantrida, dove mio padre qualche volta mi portava nei pressi del campo di calcio e mi raccontava commosso di quando da giovane giocava come ala destra nella Fiumana.
Finalmente, il calcio
Arrivati alla vigilia della Seconda guerra mondiale i ricordi vestono con abiti più pesanti. Anche i giochi sembravano essere precipitati in un vortice di preoccupante serietà. Li ricordo diversi, forse anche perché eravamo oppressi da quell’atmosfera densa di pericolo incombente. Fu un periodo che si apriva a sorprese continue. Noi bambini, forse sentivamo la cappa pesante che copriva parte della nostra vitalità. Il nostro sfogo era il gioco del calcio, con il quale scaricavamo le tristezze in una strada pedonabile, nella quale non transitava quasi nessuno e che noi occupavamo, contrastati dagli abitanti di un palazzo che non volevano subire i nostri schiamazzi, ma che noi ignoravamo. Durante le partite ognuno di noi aveva un soprannome. Era il tempo della famosa nazionale di calcio ungherese e il mio soprannome era Puskas, che era ala destra come lo era stato un tempo mio padre nella Fiumana.Abiti in terra per marcare le porte, pallone di stracci e tutto ciò che succedeva attorno non contava più nulla… C’era una variante che noi giocatori non avevamo mai constatato. Era un signore, lo scoprimmo in seguito, che assisteva quasi sempre alle nostre partite “baruffose” e che non era mai intervenuto ai nostri litigi. Al sabato ci toccava partecipare scocciati, guidati dai maestri di scuola, alle noiose e inutili esercitazioni ginniche durante le quali si vedeva quanto eravamo svogliati nel correre, nel saltare un ridicolo ostacolo, nel salire la fune e così via. Conoscemmo allora un accompagnatore sportivo: era quel signore che assisteva alle nostre partite in strada. Ci raccontò che in gioventù era stato un valido giocatore della Fiumana e conosceva mio padre. Ci chiese se noi fossimo d’accordo a giocare, “imparando seriamente”, ma con l’uso di un pallone di cuoio regolamentare. Rispondemmo tutti: Certamente. Finalmente un’attività seria!
Le truppe tedesche
Ma ritorniamo al tempo di guerra. Le truppe tedesche avevano occupato la città. A Fiume l’atmosfera era cambiata. Avevano fatto saltare la sinagoga e alcuni amici erano spariti. Seppi, senza comprendere, che erano ebrei e che non potevano giocare con noi. Non potevamo neppure più andare a “scuola di calcio” perché il Campo Balilla era stato invaso dalle truppe tedesche come campo militare. Erano acquartierati nel grande fabbricato e avevano invaso il campo con i mezzi cingolati. Io ero curioso di vedere come avevano modificato la nostra palestra calcistica e così un giorno decisi di curiosare dalla porta carraia. Mentre guardavo, in un certo modo quasi estasiato, tutti quei mezzi da guerra, mi venne incontro la sentinella di guardia puntandomi il fucile: Raus, raus, tu partigiano, partigiano raus, mi disse con voce imperiosa. Era un soldato giovanissimo e pareva più spaventato di me. Io no partigiano, io bambino, gridavo. Ero terrorizzato e mi allontanai di corsa lungo la via alberata che fiancheggia il campo sportivo, nascondendomi ansimante dietro al tronco di un albero. Ed ora come faccio a ritornare a casa? Dovrei passare di fronte a lui… Pensavo. Dopo qualche minuto, tutto tremante proseguii lungo quella strada in discesa che non conoscevo sperando di trovare, in qualche modo, la via di casa. Ricordo che arrivai in Piazza Cambieri. La riconobbi perché vidi la mia scuola e, dalla parte opposta, le macerie della sinagoga. Affrontai la lunga scalinata e arrivai in Belvedere.
Tempi difficili
Fu un periodo piuttosto oscuro e triste quello. C’era poco da mangiare. Mio padre era stato reclutato alla Todt e ritornava a casa la sera. Io e mia sorella lo attendevamo trepidanti. Si privava del rancio di mezzogiorno: una brodaglia di pasta e patate che aveva conservato per noi nella gavetta. L’appartamento di mio nonno aveva una stanza in più del nostro. Era libera e dunque secondo i tedeschi poteva ospitare un loro ufficiale. Fu così che venne occupata da un capitano dell’esercito ustascia che operava con le truppe germaniche. Lo vedevo entrare al pomeriggio e m’incuriosiva per delle scarpe stranissime che indossava e che non avevo mai visto indosso a qualcuno. Erano di pelliccia marrone esterna fluente. Molto eleganti per quel tempo assieme alla divisa, diceva la gente. Sembrava una persona educata fino a quanto non lo si sentiva dare gli ordini al suo attendente. Un mattino si sentirono delle grida provenire dalla casa di mio nonno. Erano quelle del capitano ustascia che sbraitava offendendo in malo modo l’attendente. Era reduce da una delle solite sbronze della sera prima e si era addormentato senza spegnere la luce nella sua camera. L’aveva spenta il suo attendente che non conosceva l’uso degli interruttori. Aveva semplicemente avvolto la lampadina del lampadario con una pezza inumidita.La pistola e lo schiaffoFinì anche questo periodo con la ritirata dell’esercito tedesco. Una notte udimmo una grande confusione di automezzi in moto e di voci concitate. Dalla villa sotto casa nostra stavano evacuando i soldati tedeschi con le loro masserizie. La mattina presto un altro coro di voci ci svegliò. La gente, entrata nella villa abbandonata, stava rastrellando tutto ciò che era stato lasciato nella fuga. Volli dare un’occhiata anch’io. In casa, per la confusione di quei momenti, non se ne accorse nessuno della mia assenza. Che spettacolo la razzia della gente che rovistava in ogni dove, qualcuno perfino litigando. Mi diressi al primo piano, che era meno congestionato. Entrai per caso in una stanza che aveva l’uscio socchiuso. Posata sulla sedia, mezza nascosta da alcune carte, spuntava la canna di una pistola. Sollevai un foglio e vidi quello che a me parve un magnifico gioiello. Una Luger: la pistola d’ordinanza che avevano in dotazione gli ufficiali tedeschi. La presi e la nascosi sotto la maglia. Corsi a casa e la mostrai a mia madre che lanciò subito un grido. Rimasi sorpreso. Arrivò mio padre che comprese immediatamente quello che stava accadendo. Mi strappò di mano la Luger e con l’altra mano mi dette il primo e unico schiaffo che ricevetti da lui nel corso della mia vita.
Sergio Loppel
Fonte: La Voce del Popolo – 23/08/2021