Roberto Morelli su ''Il Piccolo'' del 12 aprile
È più vera la Trieste che si assiepa alla Stazione marittima per ascoltare un confronto d'alto livello tra due autorevoli rappresentanti degli esuli e della minoranza slovena, interpellati dai direttori del Piccolo e del Primorski Dnevnik; o quella dipinta dal ministro degli sloveni all'estero?
Ministro che in una lettera al sindaco di Trieste denuncia la «intolleranza interetnica» che in città si produce «quasi ogni giorno» in «fatti ingiuriosi» o «incidenti» ai danni della minoranza?
La vera Trieste è la prima, simboleggiata dall'incontro pubblico tra Lucio Toth e Milos Budin pochi giorni fa, e dal reciproco riconoscimento che le memorie devono rispettarsi anche quando non possono essere comuni, ciò che il peso della storia rende inevitabile. Non è vera la seconda Trieste, che connota solo i cattivi informatori del ministro Bostjan Zeks: essendo inimmaginabile che un esponente di governo si produca consapevolmente in una rappresentazione a tal punto grottesca e surreale di un'inesistente Trieste da guerra fredda, ch'è solo la proiezione caricaturale di chi vorrebbe un mondo immutato nel suo livore. E benissimo ha fatto il sindaco Dipiazza a invitare il ministro a verificare di persona.
Ma quali incidenti, quale sistematica intolleranza, quale «convivenza distrutta»? È da almeno un quarto di secolo che in città non si registra un solo episodio di ostilità nazionale. Se tale dovessimo dire il gesto di due o quattro deficienti che lordano un monumento, dovremmo equiparare a Gaza ogni città d'Italia e d'Europa. E se proprio vogliamo puntualizzare, è semmai oltre confine che v'è qualcosa da farsi perdonare, considerato il recente, indegno episodio in cui s'impedì a qualche decina di persone di deporre un fiore alla foiba di Corgnale.
Diciamoci una verità banale: i quattro deficienti esisteranno sempre, da una parte e dall'altra. Ma li sovrastano gl'innumerevoli rapporti quotidiani che s'intrecciano e svolgono qui e lì, la normalità del vivere insieme sulla stessa terra e con in mezzo un confine che fu abbattuto in una sera natalizia di due anni fa, e la cui sbarra fu idealmente tagliata da migliaia di persone.
Lungi da noi la retorica del «vogliamoci bene» di maniera: certo che le comunità italiana e slovena vivono perlopiù per proprio conto, in borghi perlopiù separati, in circoli e frequentazioni perlopiù distinte. Ma non v'è nulla di male: accade in ogni terra in cui coesistono nazionalità plurime, nel Quebec come a Bruxelles. Integrarsi non significa annullare culture diverse, bensì riconoscere e apprezzare la cultura dell'altro in quanto si vive la propria. E' difficile amare e capire fino in fondo Boris Pahor – o, in Serbia, Ivo Andric – se non si amano Svevo e Magris. Chi non ha identità, non coglie l'identità altrui; chi ha rispetto di sé sente il fascino di chi parimenti si rispetta, e ne subisce l'influenza che dà vita a una più ricca e composita identità collettiva.
Ciò vale per il passato e per il futuro: per le memorie, che vanno riconosciute anziché amalgamate in un indistinto senz'anima, come per la capacità di costruire un comune cammino europeo. Questo giornale, e chi scrive in particolare, ha più volte sostenuto la necessità di un gesto di riconciliazione tra i capi di Stato che chiuda il dopoguerra. L'ipotesi ha generato favori, distinguo e qualche aperta ostilità, di qui e di là. Chi è rimasto alla guerra fredda non vuole alcun gesto? Bene, lasciamoli indietro. Lasciamo alle frange estreme i temi che le autogiustificano. Organizziamo due, tre, dieci incontri come quello tra Toth e Budin, coinvolgendo anche le altre associazioni degli esuli e slovene; due, tre, dieci accordi di collaborazione tra i sindaci di Trieste e Capodistria e Lubiana, tra Gorizia e Nova Gorica come si fa da anni, tra Muggia e i comuni limitrofi come ci si appresta a fare. Le comunità sono mature per questo, e chi non è ancora pronto lo sarà. Se il grande gesto non piace a chi ha paura, costruiamolo con tanti piccoli gesti. Il futuro farà un po' meno paura.