di Pietro Spirito
Un armadio porta segnato sul retro il nome di Mohoraz Carolina con il numero d’esodo 4330 e la scheda dell’Acomin, l’Agenzia commerciale internazionale incaricata dello smistamento. Accanto, in un scatola piena di polvere e carte, c’è un quaderno di poesie dell’alunno di quarta elementare Fiore Maria Petronio, anno scolastico 1939-1940. Ovunque, qua e là, spuntano fotografie ingiallite, attrezzi, un grande vaso di vetro con dentro quello che non si butta mai: bottoni di forgia varia, fettucce, pezzi di spago, aghi. Intorno, lungo i corridoi bui, nelle vaste sale con i muri scrostati, si accumulano migliaia e migliaia di altri oggetti, suppellettili, quadri, soprammobili, libri, giocattoli. Il tutto in mezzo a duemila metri cubi di armadi, specchi, sedie, cucine, letti, macchine da cucire, utensili di ogni genere.
Siamo dentro il magazzino numero 18 del Porto Vecchio, nella zona più lontana di quella città fantasma che è l’antico scalo portuale, dove sono stoccate le masserizie mai ritirate dagli esuli che abbandonarono le terre cedute nel 1947. Nel labirinto dell’enorme deposito il tempo sembra rimettersi in moto ogni volta che il visitatore percorre i passaggi scavati negli ammassi di questa rigatteria della Storia: d’improvviso compaiono i volti, si sentono le storie di migliaia di persone che parlano di abbandono, di fuga, di vite distrutte, case e terre perdute. Gli oggetti hanno sempre un forte potere evocativo, portano l’impronta di chi li ha avuti e usati, e i duemila metri cubi di masserizie del Magazzino 18 sono il coro assordante di un dolore non ancora spento.
Le masserizie sono state suddivise e selezionate per tipologia: di qua gli armadi, di là i letti, da una parte tutti gli specchi, dall’altra le cucine. In un’area scura del magazzino sono stipate le sedie: un numero indefinito di sedie accatastate in torri informi fino al soffitto, un intrico di legni testimonianza diretta di tante quotidianità interrotte e simbolo di quel groppo inestricabile di memoria che è stato l’esodo dei trecentomila istriani e dalmati. Non l’esodo più numeroso del Novecento in Europa, ma drammatico come tutti gli esodi e doloroso come un taglio per l’Italia del dopoguerra.
Questi beni lasciati indietro, queste masserizie che ancora aspettano qualche fantasma che se le venga a prendere, dal 1988 sono affidate all’Irci, l’Istituto regionale per la Cultura istriano, fiumano, dalmata. Dal 1947 in poi le famiglie in fuga dalle terre cedute alla Jugoslavia lasciarono in deposito in Italia i loro beni, le suppellettili delle case abbandonate, con l’idea di venire un giorno a riprenderle, una volta ricostruita da qualche parte la propria esistenza. Molti si sono ripresi ciò che era loro, molti altri sono spariti nel tunnel di un futuro che forse non immaginavano e non sono mai più tornati. Fino al 1978 in Porto vecchio c’era ancora un ufficio distaccato della Prefettura che aspettava il ritorno dei legittimi proprietari. Dopo, fu solo la storia di un continuo trasferimento da un magazzino all’altro, mentre il tesoro povero di tanta gente si arricchiva di nuove ”cose” in arrivo dai depositi di tutta Italia. Adesso quanto rimane delle masserizie dei profughi partiti più di sessant’anni fa è tutto lì, nel Magazzino 18. Una parte andrà nel nuovo Museo della Civiltà istriana, fiumana e dalmata dell’Irci, ma il grosso rimane un’incognita. E rimane il simbolo di un tempo bloccato, come tanti altri a Trieste.
«Le masserizie mai ritirate – dice Piero Delbello, direttore dell’Irci – sono uno splendido esempio per testimoniare il dramma istriano poiché nella loro povera e assoluta quotidianità danno la perfetta testimonianza di una società sradicata e cancellata senza possibilità di recupero». «Che poi possano sottendere a una “questione non risolta” è innegabile – continua Delbello – ma se, da un punto di vista culturale, vengono utilizzate in un museo a fotografia del dramma, indubbiamente rispondono a questa domanda incarnando il senso della cultura dell’esilio». Politicamente però, «altre sono le risposte che gli esuli istriani si attendono e alle quali nessun museo può essere delegato: l’attesa per il popolo degli esuli (che non sempre corrisponde all’atteggiamento di chi ne dirige le associazioni di rappresentanza) è il riconoscimento dei diritti usurpati, cioè la restituzione dei beni che si possono restituire da parte dei governi degli stati eredi della Jugoslavia e il definitivo risarcimento da parte del governo italiano per ciò che non si può restituire o che, per ragioni storiche, molte persone non vogliono avere indietro. Questo significa che se non mi restituisci la casa mi risarcisci con il suo valore reale e non con una miseria, magari data 60 anni dopo». In quanto ai nodi della memoria, secondo Delbello «la memoria non è un bene universale che deve essere universalmente condiviso; il fatto che altri abbiano memorie che possano entrare in collisione con la mia è assolutamente normale, e non potrò mai condividere queste memorie ma non mi permetterò mai di modificarle in chi, diversamente da me, le ha; e altrettanto pretendo che si riservi nei miei confronti».
«È vero – interviene Marino Vocci, studioso e divulgatore della cultura e delle tradizioni istriane – il Magazzino 18 è come molti altri luoghi di questa nostra città plurale e dai confini mobili, uno dei tanti luoghi di memorie spesso divise e contrapposte, memorie “muscolose” e da brandire, memorie cancellate e spesso accompagnate da un oltraggioso silenzio oppure che hanno subito del tutto in parte un vero e proprio memoricidio, o che hanno portato a vivere e morire di memoria». «Ora – continua Vocci – dovremmo innanzitutto favorire la reciproca conoscenza e recuperare la reciproca fiducia fra i cittadini e le comunità che vivono in questi territori, e questo significa conoscere e poi rispettare e se possibile accettare la memoria e il dolore dell'altro; in tutto ciò un ruolo importante, dovrebbe avere la nostra generazione (personalmente ho fatto tre anni di Campo profughi a Opicina) e quella un po’ più giovane che ha la memoria ma per fortuna non porta sul proprio corpo le ferite del passato: dobbiamo quindi riscoprire tutti, anche attraverso gesti e atti simbolici, una vera etica di "frontiera", cioè abbattare i muri delle separatezze e costruire ponti di reciproca conoscenza e riconoscenza».
Secondo Maurizio Tremul, presidente della giunta escutiva dell’Unione italiana in Slovenia e Croazia, «la politica affronta spesso questo problema (esodo, beni abbandonati o meglio confiscati, sequestrati, nazionalizzati, espropriati) con la prospettiva della sua non soluzione definitiva, ma della sua semplice gestione, nel migliore dei casi, o a fini strumentali in chiave elettorale nei casi meramente speculativi. La politica, invece, per sua funzione etica, dovrebbe individuare soluzioni e dare risposte chiare e certe».
«Sul piano culturale – continua Tremul – la considerazione di questi fatti merita un metodo professionale e innovativo nell’individuazione delle soluzioni e un approccio umano, di rispetto, nel rapporto con gli esuli, con le loro storie, le loro tragedie, i loro sogni. Un rapporto che deve abbracciare anche coloro che sono rimasti sulle proprie terre e che hanno vissuto un dramma speculare». Come Delbello, anche Tremul non crede «alle memorie condivise – le memorie sono sempre individuali, personali, soggettive: però è necessario capire le ragioni degli altri, i torti fatti e quelli subiti». «E se si riesce a ricordare le proprie ferite con la forza di far nascere i fiori della fraternità da quelle ferite – conclude Tremul -, con lo sguardo che ci proietti oltre la linea dell’orizzonte a superare i muri, principalmente quelli dentro le teste, guardando a ciò che unisce e avere, al contempo, rispetto per le diversità, se sapremo educare e formare le nuove generazioni alla cultura della convivenza, della solidarietà, del rispetto, della fraternità, della libertà, allora forse riusciremo a superare le contrapposizioni».