Pochi giorni fa, per l’esattezza il 21 marzo scorso, la Gazzetta Ufficiale ha pubblicato la Legge 20/2022 che dichiara Monumento nazionale il Campo profughi di Servigliano, nelle Marche, in provincia di Fermo. Nel secondo dopoguerra, fino al 1955, vi transitarono oltre 50mila persone, tra cui moltissimi esuli provenienti dall’Istria, da Fiume e dalla Dalmazia.
Nonostante sia nato come campo di prigionia, ebbe diversi utilizzi durante il XX secolo. La storia del campo di Servigliano ha inizio nel 1915. Con l’imminente entrata in guerra dell’Italia, che determinò la necessità di un campo per la raccolta di eventuali prigionieri. Furono espropriati circa tre ettari di terreno, sui quali furono realizzate 32 baracche in legno con una capienza di 125 prigionieri ciascuna. Il campo fu diviso in due settori e circondato per tutto il suo perimetro da un muro alto tre metri, sopra il quale fu posto del filo spinato. Il campo avrebbe potuto ospitare 4.000 prigionieri, circa 2.000 per ciascun settore, ma non raggiunse mai la massima capienza. Il sito di Servigliano fu scelto principalmente per la sua posizione, trovandosi fuori dalla zona di guerra e da nodi stradali ma, comunque, ben connesso mediante la ferrovia che attraversava la valle del Tenna. Dopo l’entrata in guerra dell’Italia contro l’Impero austro-ungarico, i primi prigionieri giunsero a Servigliano nell’agosto del 1916 e furono avviati al lavoro per sopperire alla mancanza di manodopera. Alcuni prigionieri restarono all’interno del campo a lavorare in botteghe predisposte dal comando, come la sartoria e la falegnameria; ad altri era permesso uscire per recarsi al posto di lavoro, principalmente in cantieri edili o nelle campagne.
I prigionieri furono esposti a innumerevoli difficoltà e a numerosi abusi, come ad esempio l’obbligo di lavoro gratuito o la sottrazione di tutta o di parte della retribuzione prevista.
1919. Campo di rieducazione
All’inizio del 1919 il campo di Servigliano fu destinato all’accoglienza dei soldati italiani redenti, con l’obiettivo di “rieducarli” agli ideali nazionali. I comandi militari e il governo decisero di riunire i prigionieri provenienti dall’Istria, dalla Dalmazia e dal Trentino, i quali, in quanto sudditi dell’Impero asburgico, avevano combattuto nell’esercito austro-ungarico. Successivamente, nel 1920, quando tutti i prigionieri furono “rieducati” e rimpatriati, il campo divenne un deposito militare fino al 1940. Con l’inizio della Seconda guerra mondiale il regime fascista predispose la riapertura del campo di Servigliano per accogliere nuovamente prigionieri di guerra. I primi prigionieri arrivarono nel febbraio del 1941, tutti provenienti dalla Grecia; nel maggio del 1942 il campo raggiunse la capienza massima di 2.000 posti.
Campo d’internamento
Dopo la fuga dei prigionieri alleati il campo venne riutilizzato per l’internamento degli ebrei sia italiani, che stranieri, vittime delle ignobili leggi razziali perpetrate dal regime fascista. Nell’ottobre del 1943 risultavano imprigionate 62 persone. Come in tutti gli altri campi d’internamento in Italia e in Europa, le condizioni di vita erano durissime. Nel maggio del 1944 gli ebrei di Servigliano vennero deportati ad Auschwitz. Dieci di loro vennero uccisi al loro arrivo nel campo di sterminio, mentre gli altri morirono di stenti e per i maltrattamenti subiti. Solo Susanna Hauser riuscì a salvarsi e venne liberata nel gennaio del 1944. Prima della liberazione, a Servigliano erano ancora presenti gli anglo-maltesi, gli ebrei trasferiti dal campo di Corropoli e un gruppo di cinesi provenienti dal campo di Isola del Gran Sasso, situati entrambi in provincia di Teramo. Il 25 maggio e il 7 giugno vi furono due incursioni di partigiani che consentirono agli ebrei di uscire dal campo, ma molti di loro, disorientati, fecero ritorno dentro le mura. Gli alleati erano vicini e il 25 giugno l’intera zona venne liberata.
Polacchi e sloveni
Nei primi mesi del 1945, con la vittoria degli alleati, il campo rimase vuoto. In primavera, tuttavia, vennero avviati dei lavori di risistemazione degli interni, volti ad accogliere 500 militari polacchi per cui era stato organizzato un corso d’addestramento. Presto, ne arrivarono altri 800, favorendo così la crescita delle attività economiche del paese: la presenza di tanti soldati contribuì alla rianimazione degli esercizi commerciali. Nel giugno del 1944 giunsero nel campo anche numerosi profughi sloveni. Per la precisione, si trattava di un’intera comunità composta da quasi 1.300 persone, per lo più formata da nuclei familiari.
1947. Gli esuli giuliano-dalmati
Dal settembre del 1947 il campo fu destinato all’accoglienza degli esuli giuliano-dalmati. Molti speravano di poter trovare lavoro, ma il territorio non era in grado di offrire possibilità di inserimento e molte famiglie, dopo una breve permanenza, fecero richiesta di essere trasferite. Nonostante le condizioni precarie del campo, tra gli esuli erano frequenti gesti di solidarietà e spesso si organizzavano feste per celebrare le proprie tradizioni con lo scopo di rinsaldare i rapporti e tenere vivi aspetti che caratterizzavano l’identità culturale di provenienza. Le feste, accompagnate anche da musica, rappresentavano un momento di grande socialità. Nonostante la continua mobilità, gli esuli non rimasero estranei alla vita di paese e i buoni rapporti tra chi abitava le baracche e i cittadini del circondario portarono alla celebrazione di numerosi matrimoni misti. La loro presenza portò la cittadina ad avere oltre 2.000 elettori. Nel 1955 il campo cominciò a svuotarsi e gli ultimi ospiti vennero trasferiti ad Ascoli Piceno, dove erano state realizzate appositamente alcune abitazioni. Si stima che siano stati circa 30mila le persone che sono passate nel Campo di Servigliano.
Il progetto di recupero
La struttura rimase in condizioni di abbandono per circa 15 anni. Negli anni ’70 , l’amministrazione di Servigliano iniziò a sviluppare un progetto di recupero del luogo. Le baracche vennero smantellate e al loro posto vennero realizzati impianti sportivi. Rimasero le mura perimetrali a ricordare la sofferenza di molte generazioni che avevano vissuto quel luogo, ma il campo si riempì di vita e di giovani.
Nel 2001 si costituì l’associazione “La Casa della memoria”, che iniziò un lavoro di ricerca, documentazione e divulgazione delle storie del campo di Servigliano. Nel corso degli anni l’associazione ha organizzato vari eventi per la celebrazione della Giornata della Memoria e del Giorno del Ricordo, della resistenza civile e della letteratura di frontiera, ai quali moltissimi giovani hanno partecipato. Si è fatta promotrice di borse di studio e iniziative congiunte con gli istituti scolastici del territorio. La dolorosa esistenza del campo di Servigliano è una tragica testimonianza della complessità della storia di quel periodo, della guerra, dei regimi totalitari che furono causa di incancellabili sofferenze: violenze su civili, deportazioni, negazioni dei diritti fondamentali dell’uomo e la difficile eredità del dopoguerra. Affinché la memoria di questa tragedia si mantenga viva e sia eredità per le generazioni future, è stato considerato indispensabile preservare al meglio la struttura e lavorare perché la ricerca storico-documentaria e l’insegnamento sapessero raccontare con passione le tante vicende avvenute nel campo. Per il suo valore storico, per l’importanza che assume la memoria, con particolare riguardo all’eredità verso le future generazioni, l’ex campo di prigionia di Servigliano è stato dichiarato Monumento nazionale. Il luogo, nel corso del tempo, si è trasformato in Parco della pace, oggi punto di ritrovo di famiglie e giovani della Media Val Tenna.
Roberto Palisca
Fonte: La Voce del Popolo – 28/03/2022