Siamo orgogliosi di pubblicare un commovente racconto del professore Sergio Balestracci, docente emerito di musica rinascimentale e barocca (vedi foto sotto). È un brano ricco di tenerezza e di ricordi istriani, dato che il babbo dell’Autore fu bersagliere a Pola negli anni ’30, dalla natia Toscana.
È stato Claudio Ausilio, delegato provinciale dell’ANVGD di Arezzo, a rivolgersi al maestro Balestracci per domandargli gentilmente un contributo scritto sul tema dell’Istria, Fiume e Dalmazia. Nel mondo degli esuli giuliano dalmati Balestracci è noto per aver composto, qualche anno fa, un brano per coro intitolato “Lacrime per Vergarolla” eseguito per la prima volta nella Basilica di Aquileia (UD) nell’agosto del 2018. Lo stesso Balestracci ha già pubblicato una versione di questo stesso articolo col titolo: “Il fascino di Pola. Un emozionante legame trasmesso da padre in figlio”, su «L’Arena di Pola», n. 1, del 31 gennaio 2022. Siamo perciò riconoscenti a Viviana Facchinetti, direttore de «L’Arena di Pola», che ci ha cortesemente concesso la pubblicazione e diffusione nel blog delle significative parole di Balestracci, che qui di seguito proponiamo (a cura di Elio Varutti).
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Avevo con mio padre un legame strettissimo, fatto di cose quotidiane, ma anche di narrazioni: al babbo piaceva molto rievocare i tempi della sua vita, a tavola o la sera dopo cena e io lo ascoltavo con grande affetto. Il mio babbo, Milton Balestracci era nato nel 1912 a Mensano, un piccolo paese in provincia di Siena, il paese dei miei vecchi; la sua infanzia e la sua adolescenza erano spesso oggetto dei suoi racconti, forse per tener vivo il suo attaccamento con la Toscana, visto che nel 1938 si era trasferito a Torino, dove io sono nato e anche i miei figli. Quando venne l’ora di andare a fare il militare, il babbo fece il CAR a Milano e venne assegnato al corpo dei bersaglieri, cioè al 12° reggimento di stanza a Pola. Cominciò l’avventura del trasferimento da Milano a Pola, naturalmente in bicicletta (con le ruote piene) che era il mezzo tipico di quell’arma, portandosi sulle spalle magari una pesante mitragliatrice. Chissà che strada aveva fatto per arrivare a Pola; forse, per non ostacolare il traffico sulle strade principali i bersaglieri seguivano percorsi secondari, poiché il babbo ricordava di essere passato da Cittadella, che è a nord di Padova e piuttosto fuori strada.
Dei suoi racconti dei due anni che rimase a Pola, ricordo solo le sue trasferte per le esercitazioni a Barbana e a Pisino, testimoniate anche da fotografie che sono rimaste in famiglia. Tra queste alcune lo ritraggono in divisa, impettito, ma anche un po’ spaesato da quella nuova dimensione della sua vita, con tanto di sciabola, scattate da un fotografo che aveva lo studio sulla via principale del centro storico. In altre si vede il babbo con tutto il reggimento mentre fa ginnastica su un prato, oppure in momenti di riposo con il fez, vicino alla caserma. Era un bel ragazzo biondo, in una foto con il cappello inclinato sulla destra in modo un po’ sbarazzino, appostato in un bosco dietro una mitragliatrice che fortunatamente serviva solo per un’esercitazione (non so che cosa avrebbe fatto in una situazione reale, lui che non avrebbe fatto del male a nessuno). Raccontava delle sue passeggiate in libera uscita vicino all’Arsenale, delle grandi adunate ginniche e delle peregrinazioni per il centro storico, passando più volte dalla via e dalla Porta Sergia.
Esperienza strabiliante – Per un ragazzo nato e cresciuto in un paesino di quattrocento anime dovette essere un’esperienza strabiliante, dapprima vedere Milano (di cui ricordava spesso le campane di San Marco) e quindi Pola, tanto più piccola di Milano, ma così intima, ricca di memorie, e poi con il mare che il mio babbo non aveva mai visto. Come tutti i soldati di leva (che allora era di due anni) aspettava con trepidazione una licenza breve per poter rivedere la famiglia. Da Pola, ovviamente in treno, voleva dire: Pola, Trieste, Mestre, Padova, Bologna, Firenze; con un altro treno Firenze-Empoli; cambiando treno Empoli-Poggibonsi: di qui, ancora cambiando, prendeva un piccolo treno a vapore per coprire i pochi chilometri da Poggibonsi a Colle; e di qui in bicicletta fino a Mensano, un ultimo tragitto faticoso e piuttosto lungo, sulle colline, rimanendo a casa per poche ore. Del ritorno ricordava il treno fermo alla stazione di Bologna, dove il mio babbo mangiava piangendo per la nostalgia della famiglia un pezzo di pollo datogli da sua madre, e poi su, su, verso il Veneto, il Friuli e la Venezia Giulia fino a Pola. Quando, ormai anziano, venne a vivere da me a Padova, gli promisi che l’avrei portato una volta, dopo tanto tempo, a rivedere la città a cui era così affezionato. Poi, prima che io potessi mantenere la mia promessa, il destino lo portò via, con mio indescrivibile dolore.
Aveva tenuto tutta la vita il suo cappello da bersagliere, partecipando negli anni alle feste che quel corpo indiceva in varie città. La presenza a casa mia dei miei genitori ormai anziani aveva reso necessario l’aiuto di badanti che venivano dall’est e con cui inevitabilmente si creava di volta in volta una certa familiarità. Una di queste, Adriana, (Jadranka) originaria di Fiume mi invitò ad andare a trovarla e io accettai. Fui trattato bene dalla sua famiglia dove rimasi alcuni giorni, dove ebbi modo di vedere la parte vecchia di Fiume e lo scempio dei nuovi casermoni orrendi costruiti dal socialismo reale, di cui ora i croati sono i primi critici.
I gatti di Veglia – Visitai, ricordo, l’isola di Veglia (Krk! che orribile suono!) e trovandomi sulla piazza del paese omonimo dell’isola vidi gironzolare una nutrita schiera di gatti. Quando mi avvicinavo per accarezzarne qualcuno, questi scappavano. Ma ecco incedere lentamente verso il centro della piazza una vecchia signora vestita di nero, dai capelli bianchissimi e gli occhi azzurri: i gatti le andarono incontro tutti quanti, e allora lei si fermò e disse: «Ve g’ho già dito che no ve dago niente». Oh, che sorpresa! in una terra dove ogni traccia italiana era stata cancellata! Le andai incontro per parlarle e lei mi disse che quella era casa sua e non aveva voluto andarsene come tanti avevano fatto; era nata lì e lì sarebbe rimasta fino alla fine dei suoi giorni.
Dopo aver un po’ ricordato con lei i tempi della sua giovinezza, partii finalmente per Pola in preda a una grande commozione per questo incontro. Abbazia, Laurana, Albona, Barbana, Marzana: giunsi infine a Pola con il cuore che mi batteva forte. Arrivato di fronte all’arena, pensando a tutte le volte che mio padre doveva averla vista, non riuscii a contenere l’emozione, anche per la bellezza del monumento, immaginando anche il dolore di quegli esuli che dovettero guardarla per l’ultima volta. Mi avviai quindi per la Via Kandler che gira in basso intorno al castello, guardando con curiosità le piccole case, qualcuna più antica, qualcuna più recente, trovando il duomo sulla destra e più avanti la piazza con il tempio di Augusto e il Palazzo comunale. Giunsi infine alla Porta Aurea o Porta Sergia, alla quale devo il nome che mio padre mi diede per nostalgia della città, uscendo dalla quale e costeggiando l’Arsenale fui molto colpito dall’antica chiesa di Santa Maria Formosa, i cui dintorni, più di altri mi suggerivano una quotidianità quieta di altri tempi.
Ma il mio vero scopo era quello di ritrovare la caserma dove era stato mio padre. Ero partito dopo aver preso contatto in internet con persone bene informate sulla storia recente di Pola italiana che me la indicavano in via Tommasini (Tomasinijeva Ulica in croato; oggi le strade di Pola sono bilingui e spesso conservano i nomi di allora): la nuova caserma era stata inaugurata nel giugno del 1934 dal famigerato Achille Starace, come si vede ancora in un film-luce disponibile in internet. Mi sono recato all’indirizzo e ho trovato un edificio con il cortile che certamente era quella caserma, ma oggi è adibito ad ospedale per anziani. Il babbo era arrivato a Pola nel luglio del 1932 ed era stato congedato nell’ottobre del 1934, quindi era certamente stato quattro mesi in questa “nuova” caserma, di cui visitai la cappella, la rampa di scale che portava al piano superiore, dove forse un tempo c’erano le camerate dei soldati. Ma dov’era nei due anni precedenti? I conti non mi tornavano.
Stavo per rassegnarmi, quando, camminando in centro mi venne l’idea di rivolgermi al Circolo della Comunità degli Italiani, vicino alla suggestiva Porta Ercole. Qui nessuno sapeva niente, ma almeno potevo parlare in italiano con le persone. Ricordo che la ragazza che stava dietro il banco del bar disse: «Non so niente… ma “quelli” non dovevano arrivare». Ben capii a chi si riferiva, a coloro che avevano anche cancellato le memorie, quando avevano potuto. Ma mentre parlavo con la barista, un’anziana signora mi sentì e mi disse: «Io so dov’era la caserma dei bersaglieri prima del 1934». Mi spiegò che era sul Monte Paradiso (come mio padre aveva scritto in un suo diario), dove oggi sorge il seminario. Andai subito fin là, in Via Rizzi e trovai il seminario, proprio mentre stava entrando un vescovo italiano che mi fece entrare con lui: ecco apparirmi il prato in cui il mio babbo faceva le esercitazioni! Questo prelato mi condusse anche a vedere le stanze edificate in momenti diversi, a partire da un vecchio muro, unica testimonianza della vecchia caserma austriaca. Mi immaginavo il babbo in questo posto così lontano e così diverso dal paese dove era nato, dove era tenuto a faticosi allenamenti quotidiani tipici di quell’arma specializzata, come il salto nel cerchio di fuoco, poco consoni alla sua personalità.
Ripartii da Pola con una quantità di sentimenti e memorie che tuttora conservo e che mi hanno legato all’Istria, dove si parla ancora un dialetto quasi uguale a quello di Padova dove abito. Continuai poi ad interessarmi delle vicende di questa martoriata regione, sentendola anche un po’ mia. Nella mia vita ho scelto la musica e, dopo aver insegnato lettere nei licei di Torino, dal 1976 ho accettato un incarico al conservatorio di Padova: da allora la mia vita è la musica, anche dopo il pensionamento, nel 2011.
Scoprire la strage di Vergarolla – Ho continuato anche a interessarmi della storia di Pola e dell’Istria, e così ho scoperto questo drammatico avvenimento del 18 agosto 1946 sulla spiaggia di Vergarolla, a Pola, in cui l’OZNA, il servizio segreto jugoslavo compì una strage di italiani per persuaderli ad andarsene da quelle terre che i croati consideravano proprie. Mi immaginavo il terrore in città e la conseguente decisione di andarsene che allora molti presero, la figura eroica del dottore Geppino Micheletti che pur sapendo di aver perso nell’esplosione due figli, continuò per tutta la giornata a curare i feriti, tenendo per tutta la vita un loro calzino in tasca (tutto quello che si era trovato dei poveri corpi) per ricordarli.
Tutti i particolari di quel terribile giorno mi indussero qualche anno fa a comporre un brano per coro intitolato “Lacrime per Vergarolla” che eseguii la prima volta nella Basilica di Aquileia nell’agosto del 2018, su testi biblici e di autori istriani; chissà se mai potrò eseguirlo a Pola? Spesso rifletto sulla storia dell’Istria, dapprima romana, poi veneziana, che l’Italia ha perduto per una politica stolta. Quanti italiani oggi sanno dov’è l’Istria e che cosa è accaduto durante e dopo la seconda guerra mondiale? Quanti italiani si rendono conto che la perdita di quella regione è un altro dei tanti danni inflitti all’Italia dal fascismo? Quanti italiani sanno che solo dopo la fine della Jugoslavia e la spartizione dell’Istria tra Slovenia e Croazia, molte persone rimaste là hanno riacquistato timidamente il coraggio di dirsi italiani, come, del resto, a Zara e a Cattaro? Poiché la storia è irreversibile personalmente mi auguro che i progressi dell’unità e della coscienza europea abbattano definitivamente i confini e restituiscano a tutti, specialmente ai “rimasti” il coraggio e l’orgoglio di dichiarare la propria cultura, la propria lingua e le proprie tradizioni. Lo so, sarà lunga e intanto i trecentomila istriani profughi sono sparsi in ogni parte del mondo. Ma non dimenticano, perché le loro radici sono più profonde di coloro che hanno ripopolato in seguito questa dolce terra martoriata.
Sergio Balestracci
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Biografia dell’Autore
Sergio Balestracci, nato a Torino nel 1944, dopo aver iniziato gli studi musicali al Conservatorio di Piacenza, ha studiato flauto diritto con Edgar Hunt, diplomandosi successivamente in questo strumento al Trinity College of Music di Londra. Laureatosi in Storia moderna all’Università di Torino, ha iniziato molto presto un’attività concertistica, sia come strumentista, sia come vocalista, nel campo della musica rinascimentale e barocca, contribuendo tra i primi in Italia alla riscoperta di quel repertorio. Fondatore dell’Accademia del Flauto dolce e dell’Accademia del Santo Spirito di Torino, ha curato la revisione di diverse composizioni sei-settecentesche in prima esecuzione moderna (“David” di Scarlatti, “San Giovanni Battista” di Stradella, “Te Deum” di Fiorè, “Requiem” di Bassani, ecc). È stato tra i fondatori dell’orchestra barocca “Academia Montis Regalis” e ha insegnato flauto dolce al Conservatorio “C. Pollini” di Padova. Da tempo è anche attivo come musicologo. In questa veste è stato docente presso la Scuola di Alto Perfezionamento Musicale di Saluzzo e l’Accademia Filarmonica Trentina. È stato inoltre docente di Storia della Prassi esecutiva presso il Conservatorio “G. Verdi” di Milano. Nel 1992 ha pubblicato la prima traduzione italiana del “Trattato su Flauto traverso” di J. J. Quantz e nel 1997 uno studio sulla “Cappella Regia a Torino nel secolo XVIII” per conto della Accademia di Santa Cecilia. È docente emerito dal 2011. Su testi biblici e di autori istriani ha composto “Lacrime per Vergarolla”, eseguita in anteprima nella Basilica di Aquileia (UD) nell’agosto del 2018.
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Autore principale: Sergio Balestracci. Progetto di Claudio Ausilio, ANVGD di Arezzo. Altri testi di Elio Varutti, Docente di “Sociologia del ricordo. Esodo giuliano dalmata” – Università della Terza Età, Udine. Networking a cura di Sebastiano Pio Zucchiatti e E. Varutti. Lettori: Claudio Ausilio, Sergio Balestracci e professoressa Annalisa Vucusa, ANVGD di Udine. Copertina: Foto di Pola diffusa in Facebook da Novella Bačić, che si ringrazia per la pubblicazione nel blog.
Adesioni al progetto: ANVGD di Arezzo e Centro studi, ricerca e documentazione sull’esodo giuliano dalmata, Udine. Fotografie della collezione di Sergio Balestracci e dall’archivio dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia Dalmazia (ANVGD), Comitato Provinciale di Udine, che ha la sua sede in via Aquileia, 29 – primo piano, c/o ACLI. 33100 Udine. – orario: da lunedì a venerdì ore 9,30-12,30. Presidente dell’ANVGD di Udine è Bruna Zuccolin. Vice presidente: Bruno Bonetti. Segretaria: Barbara Rossi. Sito web: https://anvgdud.it/
Fonte: Elio Varutti – 01/02/2022