I soci ed i dirigenti dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia esprimono le proprie condoglianze per la scomparsa di Anita Glavicich vedova Ziberna, madre di Maria Grazia (presidente del comitato provinciale di Gorizia dell’Anvgd) e di Rodolfo (sindaco del capoluogo isontino e già dirigente e presidente nazionale dell’Anvgd)
Nata ad Albona d’Istria il 21.09.1932 (il prossimo settembre avrebbe compiuto 90 anni), con la famiglia (commerciante la madre ed armatore il padre) fugge in Italia nel 1947 per evitare le persecuzioni titine e le foibe. A Gorizia frequenta da interna l’Istituto religioso della Madri Orsoline, dove si diploma insegnante di scuola materna, mentre il fratello l’Istituto San Luigi di via don Bosco.
Dopo la scuola segue la famiglia negli Stati Uniti ma fa ritorno a Gorizia per sposare Mario Ziberna, scomparso nel 1997 (esule da Pola, vice direttore dell’ENPAS e già consigliere comunale). Dal loro matrimonio nascono Maria Grazia -oggi docente di scuola superiore in quiescenza, autrice di libri storici e conferenziera sui temi del confine orientale-, Roberto (scomparso quando aveva meno di un anno) e Rodolfo, attuale sindaco di Gorizia riconfermato da pochi giorni. Dopo 15 anni vissuti nel Villaggio dell’Esule della Campagnuzza la famiglia si trasferisce nel quartiere di Sant’Anna.
La “maestra Anita” ha dedicato la propria vita alla famiglia ed all’insegnamento nella scuola materna.
Affetta da alcune patologie negli ultimi mesi viveva con la figlia che l’ha assistita, sino ad alcune settimane fa quando è stata trasferita a Villa San Giusto a causa di una operazione chirurgica della figlia.
Ci lascia dopo aver vissuto la soddisfazione di aver visto il proprio figlio Rodolfo rieletto per il secondo mandato di sindaco di Gorizia.
Lascia, oltre ai figli Maria Grazia e Rodolfo, i nipoti Francesco, Federico e Maria Letizia e la nuora Arianna.
Il funerale sarà celebrato da don Fulvio nella Chiesa del quartiere della Campagnuzza mercoledì 6 luglio alle ore 10.00, muovendo dalla cappella dell’ospedale San Giovanni di Dio, che sarà aperta dalle ore 8.00.
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Tratto da una raccolta di testimonianze edita dall’ANVGD di Gorizia:
ANITA GLAVICICH in ZIBERNA
La signora Anita ha una memoria di ferro, ricorda ancora oggi tutti i particolari della sua infanzia e giovinezza.
“A causa della guerra e dell’esodo la nostra famiglia ha dovuto patire tanto. Mio padre, Stanislao Glavicich, capitano marittimo, e mia madre, Amalia Glussich, facevano parte di una grande e numerosa famiglia, molto unita, originaria della zona di Albona, che però dopo la guerra si è dispersa: qualcuno è rimasto lì, alcuni cugini vivono a Trieste, a Mestre, i miei genitori e mio fratello hanno vissuto negli Stati Uniti, a partire dalla metà dagli anni ‘50. Mio padre e mia madre vivevano in un paesino a poca distanza da Santa Marina di Albona, Valmazzinghi (odierna Koromacno), dove c’era una fabbrica di cemento. Il papà navigava, la mamma, come tutte le mogli dei marinai, costretta a sopportare i lunghi periodi di assenza del marito, era una donna energica e 34 si sapeva arrangiare. Aveva un piccolo negozio di stoffe, cuciva e badava alla casa, all’orto e alla famiglia, mentre noi due figli, Anita e Nazario – per i nomi, come papà ripeteva spesso, si erano ispirati ad Anita Garibaldi e Nazario Sauro – frequentavamo la scuola elementare del paese e giocavamo per i campi e in riva al mare. La mia infanzia è stata libera e felice, avevamo una grande famiglia di zii e cugini, ci sembrava di avere tutto. La guerra però mise fine a tutto e, con l’armistizio del 1943, prima arrivarono i partigiani di Tito, poi i tedeschi. Si sentivano spari, si ascoltavano notizie di uccisioni, infoibamenti e impiccagioni, si stava in casa con l’orecchio sempre teso, in una situazione di continua insicurezza. Avevo undici anni, e ricordo che da noi i partigiani entravano nelle case di notte, i tedeschi di giorno. I partigiani minacciavano infoibamenti, i tedeschi impiccagioni. Anch’io ho visto dei compaesani impiccati sugli alberi dai tedeschi e ho saputo di gente gettata dai partigiani nelle foibe o affogata in mare. Mia madre, di ritorno dai suoi viaggi a Trieste dove andava a comprare stoffe per il suo piccolo negozio, ci raccontava che i tedeschi uccidevano gli ebrei nella Risiera, e di come aveva visto estrarre le vittime della foiba di Vines. Il compare di nozze di mio papà, il suo amico d’infanzia Mikulic di Brovigne, che era anche mio santolo di battesimo, era uno dei capi dei partigiani. Anni dopo venimmo a sapere che era stato interpellato per approvare la lista delle persone di Valmazzinghi da buttare in foiba ma, quando vide che tra i nomi c’era quello di mia madre Amalia, si rifiutò di firmare perché, disse, non poteva far morire la moglie del suo migliore amico, e così almeno mia madre si salvò, ma tanti altri morirono, alcuni gettati dalle barche in mare, di notte. Mia mamma, una giovane sposa con due bambini, era finita nella lista solo perché era la moglie di un uomo notoriamente di sentimenti italiani, che ai loro occhi sembrava un nemico in quanto era costretto a lavorare su una nave che era stata militarizzata dai tedeschi. L’atmosfera in paese era ormai diventata quasi irrespirabile, le scuole vennero chiuse, la mia maestra Medea Araldi sposata Giudici – il marito era di Canfanaro – era tornata nella sua città, Parma, e così i ragazzi di Valmazzinghi persero due anni scolastici. Quando nel settembre 1945 riaprirono le scuole e arrivarono le maestre croate, i miei genitori, come moltissimi altri, temendo per la nostra sicurezza dapprima ci tennero a casa, poi decisero di mandarci a Gorizia, dove studiava la figlia di un amico di papà: per poter finire la quinta elementare io sono stata iscritta nel convitto delle Madri Orsoline, Nazario nel collegio dei Salesiani, in via don Bosco. Nell’estate 1946 siamo tornati a casa per le vacanze estive, accompagnati dal papà, ma alla fine dell’estate non abbiamo avuto il permesso di tornare a studiare a Gorizia, dove tra l’altro avevamo lasciato libri e vestiti. La maggior parte delle famiglie aveva optato per rimanere italiana, molti erano già partiti e altri erano in attesa di andarsene. Le autorità però dopo i primi permessi “facili” cambiarono la loro politica e decisero di ostacolare la partenza della nostra famiglia, senza fornirci una motivazione. Noi abbiamo sempre pensato che era accaduto perché pensavano che papà poteva avere informazioni utili, o per la sua esperienza nel lavoro. Furono mesi molto duri. Lui aveva la residenza a Trieste e non lo vedevamo mai, noi eravamo bloccati a Valmazzinghi perché non ci lasciavano ritornare a scuola a Gorizia. Nella primavera del 1947 io avevo 14 anni e mezzo, mio fratello Nazario 12. Le autorità ci volevano mandare in collegio a Zagabria, mia madre era disperata. Tra l’altro, non conoscevamo il croato. Una notte la mamma preparò due borse con della biancheria: aveva ricevuto un messaggio di papà, che per quella notte era riuscito a organizzare la nostra fuga e quella di nostro cugino Bruno Zupanich – Soppani, che aveva 7 anni più di me, via mare, da Santa Marina, ma a costo di un viaggio piuttosto rischioso. La mamma purtroppo sarebbe rimasta, per badare alla casa e ai beni della famiglia. Papà ci avrebbe aspettati su una barca a remi in un’insenatura distante quasi tre ore di cammino. Ricordo che abbiamo camminato nel cuor della notte evitando le case abitate, con il cuore in gola per l’abbaiare dei cani, inoltrandoci nel bosco, attenti a non parlare e a non fare rumore. Ed ecco finalmente il rumore del mare sugli scogli, la sagoma della barca, le lacrime e i sussurri dei saluti, le braccia forti del papà che ci sostenevano mentre salivamo in silenzio sulla sua barca, come avevamo fatto centinaia di volte. Era ancora notte quando ci hanno fatto salire tutti e tre su una nave da carico dove lavorava papà e ci hanno nascosti nella stiva, sotto un boccaporto sul quale è stato ammassato un cumulo di reti ed altro materiale. La nave venne fermata per un controllo dai titini: immobili, nel silenzio più assoluto, sentimmo le loro voci e i loro passi sul ponte, ma per fortuna non si insospettirono, videro tutto il groviglio di materiale gettato sopra al boccaporto e non chiesero di scendere. In questo modo siamo arrivati nel porto di Monfalcone, da dove nostro cugino Bruno ci accompagnò a Gorizia in treno. Se ci ripenso, quel viaggio nella notte è stata una vera e propria fuga verso la libertà, ma ha anche segnato il distacco, la perdita di molte cose. Io e mio fratello Nazario non sapevamo di lasciarci tutto alle spalle: la casa, l’infanzia, gli amici, i parenti che poi sarebbero esodati in città diverse. Non sapevamo che non avremmo rivisto la mamma per due anni, perché le impedivano di partire nella speranza di farci tornare tutti lì. La famiglia è rimasta separata dal ’47 al ’49, poi agli inizi del 1950 la mamma ha potuto venire in Italia. Mentre la mia famiglia viveva per due anni in una camera in subaffitto a Trieste, io completavo gli studi restando in collegio dalle Orsoline a Gorizia. Nel 1952 sono diventata maestra d’asilo, e ho subito lavorato prima dalle Orsoline, fino al 1954, e poi per due anni in una scuola materna di Trieste, a San Giusto. Intanto mio padre aveva preso in affitto una casetta del villaggio abitato dagli americani, in via Commerciale. Il 20 maggio 1956, nella speranza di avere un futuro migliore, siamo partiti con altri conoscenti per gli Stati Uniti. E’ stato terribile andarsene via, perché in Istria, a Trieste e a Gorizia avevo tutte le amiche, e in più lasciavo il mio fidanzato Mario Ziberna e un buon lavoro che mi piaceva. Le associazioni cattoliche che avevano predisposto il viaggio ci smistarono mandandoci nel Wisconsin, a Milwaukee, una città abitata da molti tedeschi, con una ventina di fabbriche di birra, nonostante lì non avessimo nessun contatto. Negli USA l’impatto è stato durissimo, ma nonostante non conoscessimo la lingua inglese abbiamo trovato subito lavoro, grazie a una conoscente, anche lei esule da Albona, la signora Vellan, così abbiamo potuto pagare l’affitto e renderci indipendenti. La mamma ha lavorato in una sartoria, mio fratello in una fabbrica, io come commessa, poi abbiamo seguito mio padre a New York, dove c’era una bella comunità di italiani e soprattutto il mare, di cui avevamo tanta nostalgia. Siamo andati a vivere in Astoria, a Long Island, e anche lì c’erano forti rapporti tra esuli 36 in particolare ed italiani in generale, che si aiutavano tra loro e mantenevano rapporti con l’Italia e tra di loro negli USA. Tutta la famiglia ha lavorato molto duramente, spesso anche la domenica e il giorno di Natale: mio padre in porto, la mamma come sarta, io come commessa, mentre mio fratello Nazario è riuscito a trovare due impieghi contemporaneamente, nelle assicurazioni e nella compravendita di immobili. Io sono rimasta negli USA dal maggio 1956 al novembre 1957, circa un anno e mezzo, poi sono ritornata per sposarmi con Mario Ziberna, esule da Pola. I suoi genitori, Francesco (originario di Santa Croce di Aidussina, impiegato in dogana) ed Ersilia Fogar (che con la sua famiglia aveva una locanda a Carnizza) abitavano a Pola in via Kandler 33. Dopo l’esodo, nel 1947, la sua famiglia venne a vivere a Gorizia, dove prese in affitto un appartamento in via Manzoni per poi trasferirsi nel Villaggio dell’esule. Nell’ottobre 1957, con il transatlantico, sono rientrata per sposarmi, e sono andata a vivere inizialmente con i miei suoceri in via San Michele, mentre i miei genitori e mio fratello sono rimasti a New York, dove hanno seguito corsi di lingua e cultura, hanno prestato giuramento e sono diventati cittadini americani. Io sono tornata a trovarli a New York, per far loro conoscere la mia prima figlia Maria Grazia. Dopo avere cresciuto i miei figli Maria Grazia e Rodolfo ho ripreso a insegnare nella scuola materna, mentre mio marito era diventato vicedirettore dell’ENPAS di Gorizia. Per cinque anni abbiamo vissuto con i miei suoceri, che avevano solo due stanze, quindi noi dormivamo tutti e quattro in una sola camera, poi ci siamo trasferiti in alto, in un appartamento tutto nostro in via Pasubio”.