La fuga a Belluno dall’Istria occupata da Tito su un carro bestiame

«Mia mamma prese me, che avevo due anni, e mio fratello che aveva pochi mesi e ci buttò dentro un carro bestiame alla stazione di Pisino, in Istria. Ci nascondemmo nel fieno e così arrivammo a Trieste. Erano i primi mesi del 1946: da Trieste siamo arrivati a Belluno dove mio padre, che era stato arrestato dagli americani e poi rilasciato, aveva trovato lavoro come ingegnere in Comune».

È la storia della fuga dall’Istria della famiglia di Siro Maracchi, vice presidente del comitato provinciale di Belluno dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia.

«A Belluno arrivarono duecento famiglie», ricorda ancora Maracchi, che è stato anche consigliere comunale, «ma non tutte si fermarono qui, molti sono emigrati in altre parti d’Italia e del mondo».

La famiglia Maracchi è originaria di Pisino, dove Siro nacque nel 1943, proprio nell’anno in cui, dopo l’8 settembre, iniziarono i momenti più bui per gli italiani che vivevano in quei territori.

«Il comandante dell’esercito, il colonnello Scrufari, che aveva ai suoi ordini circa ottocento uomini, oltre a 60 carabinieri, consegnò il comune ai partigiani slavi, per avere salva la vita e Pisino divenne slava. I militari scapparono, i carabinieri rimasero e vennero portati via, spariti nelle foibe», racconta Maracchi.

Il padre Camillo era un ingegnere e un imprenditore, faceva parte di una delle famiglie più in vista della città ed era anche a capo dei vigili del fuoco. «A loro toccò il compito di andare a tirare fuori le persone gettate nelle foibe».

Camillo Maracchi venne arrestato e portato nel castello di Pisino, mentre la moglie scappò con il figlio Siro e si rifugiò in campagna. La presenza degli slavi a Pisino durò alcune settimane fino a ottobre, poi tornarono i tedeschi e così Camillo riuscì a salvarsi.

Il periodo successivo fu più tranquillo, se così si può dire di una terra occupata dai tedeschi con la guerra in corso. Ma poi arrivò il primo maggio del 1945, il ritorno degli slavi di Tito e l’epoca delle foibe.

«Mio padre, che era prefetto di Pisino, rimase in città fino all’ultimo, poi venne preso dagli americani, che gli avevano dato la possibilità di scegliere, cioè poteva anche andare via per conto proprio. Ma era troppo pericoloso e preferì l’arresto».

La morte della nonna materna a gennaio del 1946 convinse la mamma di Siro Maracchi ad andarsene in quel modo avventuroso, nascosta nel fieno di un carro bestiame con i suoi figli.

Ma come è stata la vita a Belluno per chi era esule dall’Istria e dalla Dalmazia? «Qui non è successo come a Bologna o in altre parti d’Italia dove ai bambini degli esuli veniva negato il latte. A Belluno abbiamo vissuto bene».

Maracchi non riesce a dare un senso all’odio verso gli italiani nell’Istria in mano agli slavi: «L’odio che ha portato alle foibe è nato con Tito. A Pisino prima della guerra gli slavi e gli italiani convivevano tranquillamente. Chi dice che gli italiani erano tutti fascisti dice una grande bugia. Erano come tutti gli altri italiani in Italia. E hanno pagato. Tutti i loro beni sono stati confiscati e mai risarciti. Mio padre arrivò a Belluno con il vestito che aveva addosso e un secondo paio di scarpe».

Fonte: Corriere delle Alpi – 10/02/2022

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Siro Maracchi
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