dall’inviato PIETRO SPIRITO
GORIZIA Si fa presto a dire Patrie. Perché Patrie è un concetto idealizzato, significa terre dei padri, qualcosa che appartiene alla sfera letteraria più che a quella storica, si adatta al mito e si accompagna ai termini di nazione e paese. La Patria può essere ovunque e da nessuna parte, c’è chi elegge a Patria il mondo e chi il proprio quartiere. È l’appartenenza che fa le Patrie, tante quante sono le capacità dell’uomo di inventare lingue, culture, idee. Non è un caso che il logo scelto quest’anno per il festival éStoria di Gorizia sia la splendida ”Grande torre di Babele” di Bruegel. E ”Patrie: cittadinanza e appartenenze dalla polis greca al mondo globale” è il tema del nuovo appuntamento con la manifestazione che fino a domani richiama a Gorizia più di cento esperti e studiosi per oltre cinquanta appuntamenti, in un confronto ad ampio raggio tra passato e presente intorno a tutto ciò che può essere ricondotto intorno alle Patrie, dagli antichi greci fino alle minorenze vessate come gli armeni o i tibetani. Iniziativa nata per merito dei fratelli Adriano e Federico Ossola che, come ha ricordato ieri il sindaco di Gorizia Ettore Romoli inaugurando la rassegna, a partire dall’attività di librai ed editori – con la Libreria editrice goriziana – sono riusciti a fare di Gorizia un polo di attrazione e di riferimento unico in Italia per la ricerca bibliografica, il confronto e il dibattito sui vasti temi della Storia.
Quando si parla di Patrie non si possono non evocare barriere, confini, tracciati che le Patrie delimitano. Ed è dai confini mobili delle nostre terre che ieri ha preso avvio la lunga galoppata di èStoria, con la presentazione di uno straordinario strumento didattico e di ricerca messo a punto da Franco Cecotti e Bruno Pizzamei e diffuso dall’Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli Venezia Giulia. Si tratta del cd intitolato ”Storia del confine orientale italiano 1797-2007 – Cartografia, documenti, immagini, demografia”, presentato dagli autori assieme a Fabio Todero. Per la prima volta un supporto informatico raccoglie tutte le informazioni sulla fluttuazione delle barriere che hanno diviso, unito e ridiviso popoli, etnie e nazioni in quest’angolo a Nord Est del pianeta. E a vederlo così, in una specie di film accellerato, il mutamento della cartografia del territorio nell’arco di poco più di un paio di secoli fa impressione. Dal Litorale austriaco del 1815-1859, alla divisione in tre parti del territorio confinante con Udine tra il 1866 e il 1918, fino ai mutamenti dei fronti di guerra e alla ridefinizione costante dei confini fra i due conflitti mondiali per arrivare al Trattato di Osimo e poi avanti, fino ai nostri giorni, prima con la disgregazione della Jugoslavia e la nascita di un nuovo confine tra Slovenia e Croazia (”con la linea che taglia l’Istria mai esistitita prima nella storia”, è stato osservato) e infine – quasi un paradosso – la dissoluzione del confine italo-sloveno nella nuova Unione europea, in questa ininterrotta fluttuazione di patrie e territori, è stato detto, ”c’è tutta la nostra storia”. Confini intesi ”come linee di tensione” che hanno provocato migliaia e migliaia di morti e centinaia di migliaia di profughi, un cumulo di sofferenze stratificato in un miscuglio inestricabile di etnie, culture, lingue. Basta osservare, nel cd di Cecotti e Pizzamei, la carta etnica con quei ”confini non visibili” tra enclavi ed etnie austriache, tedesche, croate, slovene, italiane, istro-rumene. E poi c’è tutto il catalogo delle discrasie della storia, quei corti circuiti che hanno provocato situazioni curiose o dimenticate: la condizione di Zara, enclave italiana in territorio croato ”con i suoi confini ad ali di farfalla”, oppure la circostanza per cui, con l’occupazione dell’Albania, ”l’Italia per un periodo ha confinato con la Bulgaria”.
Patrie come realtà mutanti, dunque, in una sequenza dove il miscuglio, la contaminazione è la regola. Lo si può osservare anche nella mostra allestita nella Tenda esposizione dei Giardini pubblici, dove è esposta la monumentale opera di Rodolfo d’Asburgo sulle patrie e le nazioni del suo impero, assieme alle fotografie di Monika Bulaj in un ideale itinerario, ancora tra passato e presente, che unisce, come spiega il titolo, la ”Mitteleuropa a Gerusalemme”. Ed è un lungo racconto, quello della mescolanza di popoli, etnie e cittadinanze, i cui prodromi moderni troviamo già nel medioevo come hanno osservato Stefano Gasparri e Giacomo Todeschini assieme a Miriam Davide, un racconto che però, come sempre nella narrazione storica, deve fare i conti con la distinzione tra i vero e il faslo. Ne ha parlato Luciano Canfora assieme ad Armando Torno, prima di ricevere il premio della banca Friuladria in colaborazione con Pordenonelegge.it (consegnato da scrittore Gian Mario Villalta con Alberto Garlini e Valentina Gasparet).
Storico saggista e uno dei maggiori filologi contemporaei, vero detective della storia, Canfora ha ricordato ed elencato una lunga serie di falsi documenti, a cominciare da quello da lui appena smascherato: il falso papiro di Artemidoro. Ma dal discorso contraffatto di Demostene fino ai finti diari di Mussolini e di Hitler il catalogo della menzogna storica è assai ricco. ”Del resto – ha detto lo studioso – la falsificazione è l’altra faccia della filologia, e il nostro compito, il compito degli storici, è districarsi in questa selva”. Con la consapevolezza che, se davvero il confine tra vero e falso è fluttuante e mobile come tutti i confini, ci si può consolare con un esempio esiziale ma vero: ”Quasi tutti i Caravaggio che sono conservati nelle chiese di Napoli sono falsi. Però sono bellissimi”.