Diana Bracco e il sogno di ritornare con i nipoti nel paesino dell’isola di Lussino, in Istria, da dove fu deportato il nonno e la sua famiglia bandita fino al 1970
Su Wikipedia alla voce ‘abitanti’ lo spazio è vuoto. Bisogna navigare nel web croato per scoprire che a Neresine vivono in quattrocento, tra le case in pietra sparse sulla collina (così simili ai gruppi di pecore allo stato brado) e quelle più vivaci intorno al porto, da secoli rifugio sicuro contro tutti i venti tranne la bora. Cielo, mare, pietre, salvia, bora: questa è Neresine, nell’isola di Lussino, mare Adriatico, Golfo del Quarnaro.
Nella campagna solo i resti di un’antica torre di difesa raccontano ancora di pirati e di un tempo ormai remoto, eppure impresso a fuoco nel cuore di chi a Neresine sente di appartenere. «E’ senza dubbio laggiù il luogo della mia anima», confessa tra pudore ed emozione Diana Bracco, industriale di fama mondiale, presidente e amministratore delegato di Bracco Spa, l’azienda di famiglia fondata a Milano nel 1927 da suo nonno Elio e oggi leader globale nel settore dell’imaging diagnostico, prima donna alla guida di Federchimica e Assolombarda, già Presidente di Expo 2015. «E’ lì che se chiudo gli occhi sogno di andare. Se dovessi esprimere un desiderio, mi vedo a bordo di un veliero, la prua puntata verso Neresine, con i miei nipoti che per la prima volta sbarcano sulla terra che ci ha creati».
Non le mancano certo i mezzi per solcare in veliero l’Adriatico, e non è nemmeno questione di trovare il tempo: il problema, nei sogni così intensi e radicati da essere perfino dolorosi, è che si ha paura di infrangerli rendendoli veri. Cerca di spiegarlo Diana Bracco, seduta nel suo ufficio nel cuore di Milano, quel Palazzo Visconti che appartenne a Luchino, reggia di eleganza e raffinatezza: «Io sono nata a Milano, ma noi Bracco veniamo da lì. Da Neresine fu strappato violentemente mio nonno Elio nel primo anno di guerra mondiale, deportato a Graz nel 1916 e incarcerato dall’Austria con tutta la famiglia, bambini compresi, per il suo fervente patriottismo italiano. E anni dopo – ormai c’era stata una seconda guerra mondiale – anche mio padre Fulvio (nato a Neresine nel 1909, ancora sotto l’Austria) non poté più tornarvi nemmeno in vacanza, dopo che nel 1947 il Trattato di pace aveva significato per la famiglia un taglio definitivo e straziante: nessuno di noi poteva più rimettere piede nella nostra isola consegnata al maresciallo Tito con tutta l’Istria, Fiume e la Dalmazia». È così che nasce la nostalgia per un luogo dell’anima: dal sapere che in qualche parte del mondo c’è ancora, è lì come l’hai lasciato, ma non ci puoi tornare.
Un’Itaca vicinissima eppure irraggiungibile, che resta tale anche quando le guerre sono finite da de- cenni, i regimi sono caduti, il mondo è cambiato, ma il dolore del ‘ nostos’, in greco il ritorno (da qui nostalgia), continua a scavare dentro. In fondo Neresine è a un passo, un paio di giorni di viaggio bastano per ricoprire il percorso a dire il vero accidentato (a Lussino in macchina si arriva rimbalzando sempre da altre isole più ‘importanti’, dall’isola di Cherso attraverso un ponticello o dall’isola di Veglia con un’ora di traghetto), ma Diana Bracco stenta a fare il passo, quasi avesse paura di infrangere la purezza del ricordo: «La memoria di quel mare limpido e azzurro intenso, delle rocce pungenti a strapiombo, del verde degli arbusti e delle pinete profumate di resina che sfiorano la risacca, dei fiori selvaggi e dei più svariati aromi non ha mai abbandonato né mio nonno, né mio padre Fulvio né me», prova a spiegare l’imprenditrice. terra di contrasti, l’Istria, gli stessi contrasti che balzano evidenti nella storia dei Bracco, uomini e donne forti e visionari insieme, tenaci e decisi di fronte a scelte difficili, sempre alla ricerca di nuovi traguardi, capaci – due volte esuli – di ricostruire dalle macerie di due guerre mondiali il tessuto economico e civile di Milano e proiettare l’Italia nella modernità. Estirpati dal paesino di quattrocento anime, giunti in modo rocambolesco nel capoluogo lombardo, soprattutto grazie a Fulvio sono presto balzati ai vertici della generazione dei grandi pionieri dell’in-È dustria italiana insieme agli Olivetti, ai Pirelli, ai Falck, ai Ferrero, ai Barilla, agli Agnelli… Gente che si è fatta da sé, ma – Diana Bracco ne è certa – forgiati dall’asprezza stupenda della terra che li aveva generati: «Bisogna conoscere l’Istria per capire cosa intendo – afferma l’industriale –, certamente ha plasmato il carattere di mio padre come anche il mio, sono venuti da lì la forza, l’entusiasmo, la capacità di non arrendersi che ci contraddistinguono. Integerrimo e sincero, mio padre ha trasmesso a noi figlie la sua stessa severità isolana, tirandoci su con quella che io chiamo un’educazione asburgica e una forte etica doverista». Il resto è eredità materna, visto che Fulvio sposò Anita Coppini, «laureata in chimica all’università di Pavia in anni in cui le donne che studiavano materie scientifiche erano rarissime».
Insomma, se oggi l’azienda di famiglia ha migliaia di dipendenti in tutto il mondo e un fatturato di oltre 1,6 miliardi di euro, il merito è di quel Dna respirato sulle rocce salmastre di Neresine, «terra di frontiera che di più non si potrebbe», continua Diana Bracco, non solo perché l’Istria stessa è da sempre terra di confine, ma perché il paesino sorge appena dopo il piccolissimo ponte di Ossero che consente alle auto di accedere all’Isola di Lussino. «Pensi che oggi in tutto il mondo un esame a raggi X su tre è fatto usando i mezzi di contrasto della Bracco», dichiara, «una bella soddisfazione per un’azienda familiare italiana e in un settore tecnologicamente avanzatissimo ». Era il suo stesso marito Roberto, oggi scomparso, a ricordarle sempre che «il mio carattere è proprio come la mia isola, pietroso e colorato, capace di quiete e di tempeste. Con lui e con gli amici anni fa condividevamo l’amore per il mare veleggiando in splendide crociere lungo la Dalmazia. Per noi la barca era una seconda casa, il ‘buen retiro’ dopo le fatiche del lavoro, una fonte di gioie e di avventure con le persone più care», racconta con rimpianto. Erano anni in cui finalmente il divieto che gravava sulla testa dei Bracco di tornare nella loro patria era caduto, «solo nel 1970 la proscrizione era stata cancellata e mio padre Fulvio riuscì a tornare per la prima volta a casa sua, a bordo del Quarnerino, una barca con quattro posti letto ma senza cabine. Ricordo la commozione profonda con cui al ritorno mi riferì il suo incontro con il passato». Fin da bambina era cresciuta con i suoi racconti di quando Fulvio era ragazzo e approfittava di ogni momento di libertà – frequentava il Nautico di Lussino, uno degli istituti più importanti d’Europa – per uscire in mare sulla sua barchetta a vela, la Monella. «Tra le isole di Lussino e di Cherso c’è un tratto di mare che sembra il paradiso terrestre e lì andava a bordeggiare, a volte costretto ad allontanare i pescecani battendo un legno sul fondo della barca».
Pirati e pescecani, ma anche comandanti ed epici naufragi: «La nostra famiglia da generazioni era legata al misterioso mondo dei commerci sul mare – prosegue –. Marco Bracco, nonno di mio padre, aveva abbracciato la carriera di capitano di lungo corso, ma dopo uno spaventoso naufragio perse il veliero e fu costretto alla terraferma, dove prese le redini dell’ufficio postale di Neresine ». Che sarà anche piccola ma in fondo fece parte della Storia, prima nella Serenissima Repubblica di Venezia, poi sotto l’Austria, in seguito sballottata da due guerre mondiali: «Nonno Elio, segretario comunale, il fervente irredentista deportato a Graz nel 1916, aveva sposato mia nonna Nina Salata, sorella del senatore del Regno Francesco Salata », politico e storico di ampie vedute, grandemente apprezzato anche a Vienna nonostante la sua fede irredentista.
Quest’anno il Gruppo Bracco festeggia i 95 anni e lo fa nel migliore dei modi, continuando cioè a finanziare attraverso la Fondazione omonima migliaia di borse di studio e il rientro in Italia di giovani ‘cervelli in fuga’. È l’eredità di quel mecenatismo illuminato che contraddistinse l’operato di Fulvio. Lo ricordano molto bene i tanti istriani che, scappati dalla Jugoslavia di Tito, negli anni ’40 e ’50 giungevano esuli e in miseria: Fulvio Bracco andava al Centro Raccolta Profughi allestito nelle vecchie scuderie della Reggia di Monza e dava loro futuro e speranza assumendoli in azienda… «Non dimenticava Neresine come non la dimentico io. In futuro ce la farò, affitterò il veliero e salperò insieme ai miei nipoti perché conoscano da dove son venuti. Tanto prima o poi il luogo dell’anima ti viene a cercare, ti trova lui se non lo hai fatto tu. Riemerge sempre e tu lo riconosci, anche se non l’hai mai visto».
Lucia Bellaspiga
Fonte: Avvenire – 28/07/2022