“Innocenti, bambini nostri, speranze di tutta la nostra vita, teneri virgulti strappatici dalla bieca ferocia di certi e dalla tracotanza (pardon, flemma) di altri…”
Questa frase fa parte dell’articolo per la commemorazione “dell’immane strage” apparso sull’Arena di Pola del 25 agosto 1948 e scritto dal dottor Geppino Micheletti.
Ma iniziamo dal momento “dell’immane strage”.
La maggior parte dei giornali dell’epoca è concorde sull’ora -14,15- di un’esplosione di 28 mine
“cariche di tritolo abbandonate sulla spiaggia di Vergarolla a Pola”- da Il Grido dell’Istria del 13 settembre.
Nelle ore successive allo scoppio ed anche nei giorni seguenti, a Pola e sui giornali la confusione regnava sovrana.
Lo scarno comunicato stampa ufficiale del Governo Militare Alleato del 18 agosto dichiarava che si trattava “di mine marine… saltate in aria”, ma non era assolutamente esaustivo.
In città la commozione per l’accaduto era fortissima; molti polesani paragonavano il disastro a quello del tremendo bombardamento del 9 gennaio 1944. Quel ricordo e la recente tragedia li facevano vivere nel terrore e nell’orrore.
La sera stessa, Radio Pola trasmetteva il comunicato del Governo Militare Alleato, in cui si asseriva che “le ambulanze del 167° Field Ambulance , coadiuvate da automezzi di reparti militari inglesi, della Polizia della Venezia Giulia, dei Vigili del Fuoco e dei reparti rastrellatori di mine” si erano portate “immediatamente sul posto per il soccorso delle vittime”.
Molti giornali parlavano di soccorsi tempestivi ed efficaci, certo è che gli uomini che si erano precipitati alla spiaggia di Vergarolla avevano visto e vi avevano trovato scene ed immagini impensabili: “l’esplosione improvvisa” aveva ridotto a brandelli quelli che erano vicini alle mine, aveva ucciso quelli che erano distanti o nell’acqua.
Ancora dopo 76 anni rileggere le cronache della strage, ripensare e rivivere quei momenti incute orrore e tanta pietà per le vittime, nel nostro Paese, purtroppo condivisi da pochi.
La Posta del Lunedì aveva sottolineato “l’alto valore morale e che onora” del dottor Geppino Micheletti che “in assenza del prof. Caravetta “si era prodigato fino al di là di ogni risorsa fisica” e aveva “continuato la sua opera fin che l’ultimo ferito che aveva bisogno del chirurgo non avesse avuto le sue cure”. Il Consiglio Generale dei Sindacati già l’indomani della carneficina aveva proposto al Presidente di Zona “considerata l’opera del dott. Micheletti quale lavoratore al servizio della collettività, per una azione continua di salute e di bene; opera che nella dolorosissima circostanza ha raggiunto il significato del più puro eroismo civico ed umano” di proporlo “per la più alta ricompensa al valore civile”.
In Istria la notizia si era diffusa abbastanza velocemente, passando di bocca in bocca, quasi in segreto, e aveva suscitato costernazione e paura, soprattutto tanta paura.
A Pola si respirava il cordoglio, il dolore attanagliava i cuori.
In segno di lutto le campane di ogni chiesa di Pola avevano suonato a morto; Radio Pola aveva trasmesso solo musica sinfonica o operistica; gli esercenti dei negozi ed i cinema avevano chiuso i locali; il Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria aveva esposto la bandiera a mezz’asta; la Camera Confederale del Lavoro aveva invitato tutti i lavoratori a fermarsi per 10 minuti, dalle 11 alle 11.10 del lunedì mattina.
Su Il Lunedì. Giornale patriottico friulan-giuliano del 19 agosto si leggeva che “il cuore di tutti gli italiani e particolarmente di noi giuliani [era] vicinissimo oggi più che mai alla città sorella di Pola colpita dall’immane e ancora misteriosa sciagura… Con i sentimenti di un affettuoso cordoglio al lutto dei fratelli istriani” con “viva e fraterna solidarietà nella tragica contingenza”.
L’Arena di Pola del 20 agosto, però, deplorava che al campo sportivo comunale si era continuato a gareggiare e che al Savoy Cinema “i divertimenti cinematografici” non erano stati interrotti.
Il lunedì 19 Pola era una città spettrale: i negozi chiusi, nelle officine, nei cantieri e nelle fabbriche, dopo i 10 minuti di silenzio, il lavoro era continuato in un mutismo irreale.
Sempre per la giornata del lunedì tutti i sindacati, filoitaliani e non, unanimemente, avevano deciso l’astensione dal lavoro di tutti gli affiliati per l’intero 20 agosto e, subito, la Camera Confederale del Lavoro aveva preso la medesima decisione; tutti i sindacati, filoitaliani e non, avevano chiesto ai lavoratori di partecipare ai funerali.
Il Nostro Giornale del 20 agosto, in un lungo commosso articolo scriveva che “tutte le organizzazioni antifasciste commosse per la dura sciagura” porgevano “ai poveri morti il loro estremo saluto e alle famiglie colpite i sensi del più profondo cordoglio”.
Il Governo Militare Alleato aveva concordato con queste decisioni.
A Pola il lutto era di tutti, italiani e no.
Il polesano Lucio Marzari inviò una lettera pubblicata sull’Arena di Pola del 21 agosto, in cui dice che tutti, proprio tutti i Polesani muti e uniti avevano “dimostrato in forma totalitaria il riverente e profondo cordoglio… pensando alle innocenti vittime dell’incoscienza altrui, a quei poveri corpi straziati e maciullati, a quelle povere famiglie completamente estinte, ai tanti assenti”.
I morti e feriti (foto GMA 1203)
Suscitava molto scandalizzato stupore la mancata chiusura del Cinema Savoy che era stato requisito per gli alleati: gli anglosassoni “avrebbero dovuto abbandonare una volta tanto la loro tradizionale flemma”: Marzari attribuiva il fatto “alla loro tipica negligenza e imperdonabile trascuratezza”.
Ma anche il Bar Ostroman era rimasto aperto per una cena prenotata da sessanta calciatori jugoslavi che non avevano ritenuto di doverla sospendere, nonostante, verso le 22, dei giovani avessero fermamente chiesto al signor Ostroman di chiudere il locale: per tutta risposta l’energumeno jugoslavo aveva minacciato i giovani con un coltellaccio da cucina urlando che “i morti italiani non lo riguardavano”. I polesani erano e sono ancora convinti che i due fatti siano stati un gesto di spregio nei confronti del lutto cittadino. Il tutto aggravato dall’aver appreso che dei medici militari inglesi, saputa la notizia dell’esplosione, erano rimasti “sdraiati al sole sulla spiaggia, mezz’ora dopo la tragedia”. Gli amministratori fiduciari erano ritenuti efficienti nel tutelare gli interessi di Londra e di Washington, laddove nelle funzioni di governo “il loro interessamento per il bene dei cittadini, grandissimo a parole, lascia alquanto a desiderare nei fatti”.
Ma, ancora, a un gruppo di operai filo-jugoslavi che avevano chiesto di tenere un comizio in segno di solidarietà con le vittime di Vergarolla, veniva negata questa richiesta, tanto da far loro scrivere: “Non ci si può riunire, non si può parlare, si può solo chiedere e mai avere. E la chiamano libertà questa!”. Gli operai nutrivano, fortissima la sensazione che l’amministrazione fiduciaria non volesse che si dicesse la verità sullo scoppio di Vergarolla.
Tralascio di descrivere la conta dei morti e dei feriti: i numeri ballavano sempre. Il quotidiano dell’UAIS- Unione Antifascista Italo Slovena – alle ore 18 del 19 agosto dava un elenco di 37 deceduti identificati.
I nomi erano elencati in ordine di riconoscimento.
Sottolineo che l’identificazione era estremamente difficile “essendo quasi tutti svestiti” e sempre avveniva grazie ad indumenti. In quell’elenco, la ventisettesima vittima è una mia parente, prima cugina di mia madre. Era Anita Quarantotto.
- Quarantotto Anita fu Giovanni e di Apollonio Lucia, nata a Pola il 14.12.1909, ab. in Via Manzoni 46.
In quest’elenco ci sono già i nomi di tanti bambini: tredici. Tra questi Sergio Vivoda di otto anni, ma ci sono bambini di tre cinque e sei anni e Carlo Micheletti di Geppino di nove anni.
Il quotidiano triestino La Voce libera del 20 agosto scriveva: “delle 62 vittime oramai accertate il cui numero si ha ragione di temere che aumenterà perchè numerose persone che si trovavano sul posto dell’esplosione non hanno fatto ritorno alle loro case, 37 sono state identificate mentre altre quattro sono irriconoscibili. Ci sono poi brandelli di carne umana che appartengono ad altre 17 persone”.
Oltre ad essere il numero 27 dell’elenco, ecco chi era Anita Quarantotto.
Anche lei, come tutti i presenti, era andata su quella spiaggia per partecipare alla celebrazione dell’anniversario della Società Nautica Pietas Julia, per fare un bagno, per una giornata da passare in serenità, in compagnia di amici in quella calda giornata estiva.
Non è più tornata a casa, per lo meno non viva. Non è tornata a casa dalla sua mamma Lucia, dalle tre sorelle Italia, Catineta e Nevia.
Anita era figlia di Lucia Apollonio, sorella del Podestà di Orsera Giorgio gettato nella foiba di Villa Surani assieme a Norma Cossetto il 5 ottobre 1943.
Delle quattro sorelle Catineta aveva trovato il lavoro da cassiera nel Cinema Teatro “Sala Umberto” di Pola, di proprietà di suo zio Francesco Apollonio; Italia era impiegata in un ufficio statale. Di Nevia so solo che era troppo piccola per poter lavorare.
Di Anita, invece, so che, oltre ad esserne cugina, era amica di sempre della mia mamma; per entrambe ogni occasione era buona per un abbraccio o perchè mia mamma andava a Pola o, per Anita, di venire ad Orsera, il paese dei suoi genitori.
Eccola l’inverno precedente la strage, ad Orsera, sorridenti, belle, eleganti, felici di stare insieme per qualche momento nel loro paesino: la prima a destra è Anita Quarantotto.
Anita viene tumulata dopo la Messa, al Cimitero di Marina, il 20 agosto assieme ad altre 6 salme secondo Il nostro giornale. Ma l’Arena del 22 pubblicava un’errata corrige in cui si chiariva che Anita era stata sepolta al Cimitero Civile e non a quello di Marina.
Il 20 agosto si erano formati due cortei, uno di 7 salme – compresa Anita – dirette al Cimitero di Marina, l’altro molto più numeroso diretto al Cimitero di Monte Ghiro.
Radio Venezia Giulia, il 20 agosto, informava dei funerali di 62 vittime, 17 delle quali a brandelli ed irriconoscibili. Aveva celebrato la Messa Monsignor Radossi, alla presenza dei familiari delle vittime e delle autorità cittadine e militari alleate. Le sue parole avevano suscitato grandissima commozione, fino alle lacrime. Aveva anche esortato le famiglie in difficoltà a rivolgersi a lui “personalmente promettendo tutto il suo possibile aiuto”.
I due cortei erano stati seguiti dai parenti che portavano un “interminabile” numero di ghirlande, dalle autorità, dai rappresentanti del Vigili del Fuoco, dalla Polizia Civile, dal Clero, partendo dalla Cappella dell’Ospedale Santorio.
I funerali dei due figli di Geppino Micheletti, Renzo e Carlo, si erano svolti, qualche ora più tardi alle 17, separatamente, partendo dall’abitazione in Piazza delle Erbe 7 verso il Cimitero Civile. La famiglia Micheletti avrebbe espresso sui giornali il proprio ringraziamento per le attestazioni di affetto ricevuto in quei giorni.
Questa l’esplosione, questo il lutto e il cordoglio.
Ma chi erano i mandanti? Chi gli esecutori?
A queste domande non sono mai state date le risposte.
Ma gli esecutori – si parla di due o più attentatori – potrebbero essere stati degli agenti, militari o no, molto fidati della polizia segreta, esperti di esplosivi. E in Istria, in quel momento ce n’erano molti, senza scrupoli. Persone con un minimo di coscienza non avrebbero potuto compiere un atto simile. Spietati fanatici incapaci di sentimenti umani che odiavano gli italiani, che, senza esitazioni, senza dubbi, avevano accettato di compiere l’attentato.
Un polesano, anche di sentimenti filo jugoslavi, mai avrebbe potuto ideare un atto del genere, uccidendo, con molta probabilità qualche amico o addirittura qualche parente. Sarebbe stato un azzardo coinvolgere persone affettivamente legate agli esecutori della strage. Inoltre, se polesano o polesani, facilmente sarebbero stati riconosciuti dai loro concittadini; per non essere interrogati dalla Polizia Civile ed arrestati, avrebbero dovuto fuggire in Zona B e, questa, sarebbe stata un’autoaccusa.
Si sono fatti alcuni nomi, forse il più credibile quello di Giuseppe Kovacich già conosciuto dallo spionaggio alleato quale terrorista e conosciuto dal Battaglione 808° dei Carabinieri come Giuseppe Covacich. In un bollettino dei Carabinieri del luglio 1946 lo si definiva “…molto zelante nel perseguitare gli italiani”. Sempre nel luglio, successivamente, i Carabinieri informavano il Comando alleato di Pola che “Giuseppe Branco… comunista… ha recentemente distribuito una grande quantità di armi ai suoi compagni, alla periferia di Pola”.
Ma c’è anche la testimonianza di un esule polesano che appare sull’Arena di Pola del novembre 1995. Gino Salvador dice di aver visto approdare al molo di attracco del Cantiere Lonzar una barchetta d’ala d’idrovolante. La persona che la occupava spiegava di aver bisogno di poco tempo perchè la barca si fermasse ormeggiata là e il Salvador gli aveva creduto. Quella barca era ancora attraccata dopo l’esplosione ma era sparita dopo qualche tempo. “L’uomo era di statura media, di colorito bruno, capelli neri ricciuti”. Questa descrizione non collimava con quella del Kovacich, “alto, magro, capelli castani, naso aquilino, occhi blu”.
C’è anche la descrizione di una persona scampata all’attentato “un uomo vestito bene, di grigio, ha steso un filo attraverso la pineta…”
E “recentemente ritrovata la lettera d’addio di un polese che si è suicidato e nella quale si giustificava per l’esplosione, ma sosteneva che ha fatto tutto su ordine di Albona”.
Nel diario di Guido Miglia del 1973 si legge di “una notizia spaventosa… un uomo sarebbe stato visto aggirarsi per la pineta poco prima dell’esplosione, nella mano teneva un sasso, camminava con aria piena di sospetto, vestiva un abito grigio, le scarpe color marrone, un cappello di feltro chiaro, portato sopra gli occhi”. L’identikit diffuso dalla polizia parlava di un individuo di età approssimativa 40-45 anni, statura m. 1,60-1,65, viso sottile, naso aquilino, colorito abbronzato, capelli castani, vestito con abito grigio scuro.
Lino Vivoda raccontava di essere stato in anni più recenti contattato da qualcuno a Pola per dargli notizie sulla strage, ma di non essersi presentato all’appuntamento temendo fosse una trappola: ha sempre sostenuto che l’attentato di Vergarolla era stata opera dell’OZNA.
Quindi nessuna certezza ma neppure c’è mai stata e non c’è tuttora alcuna volontà di cercare la verità.
Ci sono state molte piste che non hanno fatto chiarezza sull’accaduto.
Quella dei golpisti italiani, jugoslavi e tedeschi per la quale si dovrebbe cercare tra gli anticomunisti italiani, jugoslavi o tedeschi: con la strage di Vergarolla si sarebbe tentato di far scoppiare la terza guerra mondiale dando la colpa dell’atto criminoso ai titini.
La pista alleata per la quale gli attentatori sarebbero stati inglesi e/o americani. Ma neppure la stampa filo jugoslava ha mai gettato colpe sul GMA di Pola.
La pista francese emersa a causa della “manovra a tenaglia” attuata dai francesi con i titini per togliere all’Italia territori, ad ovest i francesi, all’est gli jugoslavi, manovra attuata con la violenza militare tra aprile e giugno 1945. Gli jugoslavi l’avevano portata avanti mentre i francesi, sotto la pressione degli angloamericani, si erano fermati.
La pista sovietica: i sovietici non sono mai stati accusati, probabilmente a ragione, visto che i sovietici non avevano mai appoggiato l’oltranzismo degli jugoslavi contro gli occidentali. L’atteggiamento di Tito metteva in difficoltà l’URSS per la spartizione del mondo.
La pista del Governo italiano. Che allora era sostenuto da DC, PSI, PCI e PRI e che MAI ha parlato di attentato e MAI ha indicato i colpevoli; aveva, inoltre, sostenuto le spese dei sussidi ai parenti delle vittime destinando al Presidente di Zona “2 milioni per assistenza famiglie vittime esplosione”. È noto che De Gasperi aveva tentato di dissuadere il CLN di Pola dal consigliare l’esodo. Sostenendo che in Istria doveva rimanere il maggior numero di italiani, nel caso di una revisione del Trattato di Pace. Da tener presente che i comunisti italiani non volevano in alcun modo che gli italiani se ne andassero dall’Istria.
La pista della vendetta personale, che per molti motivi non regge. Il motivo principale è che il maggior numero di vittime erano donne e bambini, oppure persone comuni che mai avevano commesso delitti di alcun genere – pensiamo ai bambini – e nessuno era un esponente politico filoitaliano e particolarmente odiato dagli jugoslavi.
La pista ignota: l’unico giornale a parlarne è stato il Glas zaveznikov del 12 settembre. Gli agenti avevano arrestato un “noto pregiudicato quarantacinquenne Anton Katnic… sorpreso mentre nelle vicinanze di Vergarolla tentava di nascondere in una buca un sacco di lana di provenienza sospetta… gli agenti vi avevano trovato 51 pezzi di esplosivo (tritolo)”. L’uomo aveva tentato di scappare; portato in Polizia era stato riscontrato che la sua carta d’identità era falsa; aveva anche asserito di avere molti nemici. Fatte le dovute indagini si era scoperto che il Katnic nel corso degli anni aveva avuto una sessantina di condanne per un totale di anni di reclusione che vanno dai 40 ai 50.
Per falsificazione di documenti e per detenzione abusiva di esplosivo, Katnic, che si è sempre dichiarato innocente, tenendo pure degli atteggiamenti di chiara irrisione nei confronti dei poliziotti, era stato condannato a due anni di reclusione.
Ho tentato di fare un quadro esaustivo della strage avvenuta a Vergarolla, strage una volta sola commemorata alla Sala Aldo Moro di Montecitorio il 13 giugno 2014. Dopo non se ne è parlato più, quasi quella commemorazione fosse avvenuta per sbaglio. Perchè sempre troppo scomoda da ricordare, perchè, commemorandola, si teme di rompere delicati equilibri sia in Patria che all’estero?
MA quest’anno, a Pola, giovedì 18 agosto alle ore 11:00, per la prima volta, si terrà una commemorazione ufficiale alla quale parteciperanno importanti personaggi istituzionali:
Filip Zoricic – Sindaco della città di Pola
Davide Bradanini – Console Generale d’Italia a Fiume
Maurizio Tremul – Presidente UI in rappresentanza dell’UI e della Comunità italiana di Pola
Boris Silijan – Associazione degli antifascisti di Pola
Bruno Cergnul – Vicesindaco italiano di Pola
La presidente di AIPI-LCPE Graziella Cazzaniga Palermo.
A conclusione di questo mio ricordo sulla strage, un solo pensiero: un’esplosione spontanea non è né pensabile né possibile perchè la carica era tritolo ed i detonatori delle mine erano stati rimossi. SOLO un mostro con sembianze umane poteva aver ideato e compiuto questo crimine; di questo mostro non conosciamo il nome, ma gli esuli non hanno dubbi sugli ispiratori e sugli attentatori: implacabili cospiratori pieni di odio contro gli italiani.
Le fonti citate sono tratte da La strage di Vergarolla -18 agosto 1946- secondo i giornali giuliani dell’epoca e le acquisizioni successive di Paolo Radivo, edito dal Libero Comune di Pola in Esilio – L’Arena di Pola.
Anna Maria Crasti
Vicepresidente dell’Associazione Italiani di Pola e dell’Istria – Libero Comune di Pola in Esilio