di RENZO SANSON
Lino Carpinteri festeggia oggi 85 anni. Giornalista, scrittore, commediografo, umorista, cultore del dialetto, è un personaggio di primo piano della letteratura triestina più ruspante. Il compleanno è un’occasione per ricordare l’avventura delle ”Maldobrìe” e della ”Cittadella”, ideata e vissuta dal 1947 in coppia con Mariano Faraguna, suo coetaneo, scomparso nel 2001, poche settimane dopo il congedo della ”Cittadella” dal ”Piccolo”.
Lei ha gli anni del Nonéto di ”Serbidiòla” e di Sior Bortolo del ”Campanon”. Cosa prova?
«È vero, ho proprio l’età del Nonéto, perchè negli anni ’50 e ’60 forse la maggioranza della popolazione – non che avessero tutti 85 anni, intendiamoci! – ma tutti appartenevano in qualche modo alle generazioni che erano nate nell’Ottocento. C’erano ancora i reduci della prima guerra mondiale, che avevano l’età di mio papà, che era del 1893, o della bisnonna che era del 1841. In realtà, io per molti anni sono stato uno dei ”muli” della ”Cittadella”. E mi sono sempre considerato un ”mulo”, anche quando avevo 50 o 60 anni. Adesso è ben diverso».
In che senso?
«A questa età il mondo si riduce a un orizzonte ”che no xe tanto bel”. Se guardo avanti, non vedo il tram per Sant'Anna, il cimitero. Certo mi piacerebbe vivere quanto mia mamma, che è morta nel Natale del 2003 all’età di 102 anni e sei mesi. Ma non vorrei che il mio congedo fosse un sollievo per gli altri. Insomma spero di rimanere lucido fino all’ultimo, come mia mamma, nonostante fosse piena di acciacchi. E dopo mi auguro di non finire come Mario Granbassi: ”Cossa me ne frega a mi de dar nome a una scaletta! Co' morirò, se i volarà dedicar qualcossa a Carpinteri&Faraguna, che no i ne meti a Chiarbola!”, magari togliendo un pezzo di strada o di scalinata di un altro ebreo».
Lei quando ha cominciato?
«Prima della guerra (la seconda, natürlich). Avrò avuto 16 anni quando Mario Grassi ha pubblicato il mio primo articolo sul ”Piccolo”. Era un pezzo di costume, intitolato ”Le affinità elettive”, in cui raccontavo come alle conferenze ci si trova quasi sempre le stesse persone e si stabilisce quasi una complicità tra questi habituée».
E dopo?
«Io ho iniziato alla ”Voce Libera”. Faraguna all’agenzia di stampa Astra. Lui ha cominciato la sua carriera dalla parte cattolica, perchè la sua famiglia erano dei grandi cattolici, antifascisti veri. Invece io ho cominciato dalla parte laica: alla ”Voce libera” c’erano gli azionisti, i repubblicani, i liberali, i socialisti… E poi siamo confluiti tutti e due alle “Ultime notizie”. Il primo lavoro giornalistico l'ho fatto con gli Alleati all'agenzia che aveva sede dov'era stata la vecchia Stefani, in via Mazzini, traducendo telegrammi dall'inglese all'italiano. Faraguna l’ho conosciuto per la prima volta a ”Caleidoscopio”, con Luciano Cossetto, Duilio Saveri, Ferruccio Sbisà e poi Tullio Kezich».
Quando è nata la sua passione per il giornalismo?
«”A mi me piaseva assai l'idea del giornalista!”. Un’amica di Milano mi citava come uno che sapeva fin da piccolo quel che voleva fare e che lo ha effettivamente fatto. In realtà non fu come me l’ero immaginato».
Perchè?
«Ho scritto poco. A parte tre o quattro servizi fuori di casa e ogni tanto qualche elzeviro per la Terza pagina, ”mi go sempre fato la cusìna del giornal”, insomma sono sempre stato confinato in una stanzetta a passare testi e a fare titoli e sommari. Per fortuna c’era la ”Cittadella”, il foglio umoristico dove invece scrivevo di tutto».
Come lavorava in coppia con Faraguna?
”In un certo senso io ero il braccio, lui la mente, perchè io prendevo appunti e poi li trascrivevo a macchina, mentre Mariano non ha mai saputo – né voluto – usarla, tanto è vero che mandava in tipografia i suoi articoli manoscritti e venivano battuti sulla linotype dal dattilografo Torlo, l’unico che riuscisse a leggere la sua scrittura».
Come vi dividevate i compiti?
«Una parte del lavoro – i temi e le didascalie delle vignette, che poi venivano realizzate da Renzo e José Kolmann, e le battute di ”Cosa dirà la gente” – era d’ideazione comune. Poi ognuno scriveva per conto suo. Io scrivevo fino a sei pezzi per ogni numero, a partire dal ”fondo”, all’ultimo dei quali credo sia dovuta anche la morte della ”Cittadella”».
Però avevate già venduto la testata…
«In quel caso, confesso, fummo ingenui, perchè abbagliati dall’offerta di Primo Rovis. Anche se io ebbi un ripensamento, perchè ”mia mama me gà dito: no ste la vender!”. E lo feci presente a Faraguna: ”Guarda che mi son mezo ebreo, ma mia mama xe intiera ebrea. Badèmoghe! Forsi femo mal a vender la Citadela…”. Ma Mariano insistette: ”No, no! Xe vero che i soldi val fin a un certo punto, ma dovemo pensar a la famiglia. Varda che sarà un mucio de soldi!”. Così non demmo retta a mia mamma e intascammo 200 milioni a testa, che oggi, con l’inflazione e la crisi, non so proprio dove siano finiti…».
Quando avete avuto l'idea di scrivere queste storie in dialetto?
«Per la radio, al ”Campanon”, che facevamo in tre con Duilio Saveri, il quale ”fazeva la scenetta in triestin, che iera bela, con due personaggi: siora Ida e sior Giordano”. Quando Saveri diventò professionista della Rai, non continuò più a farla e toccò a noi inventarci qualcosa che sostituisse quella che era diventata la scenetta centrale del programma. E, a dire il vero, se non ci fosse stato Faraguna, non sarebbe mai rinata. Mariano aveva tutto un background istriano, anche linguistico: sua mamma era di Cherso e da lì venne fuori l'idea del ”pescadòr” e del ”marittimo” sior Bortolo, el Nonéto cui dava voce Lino Savorani (”Ale ale done, che ’l sol magna le ore!”) dialogando con Siora Nina».
I vostri testi avevano anche implicazioni politiche. Durante gli anni della Cortina di ferro, voi eravate un piccolo reparto arruolato per la guerra psicologica contro Tito&Co.?
«Si può anche vederla così. Negli anni dell'irredentismo, prima del ritorno all’Italia, fummo anche convocati a Roma da Pugliese, il grande capo della Rai democratica, che ci affidò una trasmissione per l'Istria, che veniva irradiata da Venezia».
Dicono che eravate di destra, nostalgici reazionari, per non dire ”fascisti”…
«La verità è che non siamo mai stati di sinistra. Questo è il punto. Mariano era iscritto al partito liberale, io a quello repubblicano. E non abbiamo mai avuto simpatie per quelle che definirei le “superstizioni della sinistra”. Ma non mi considero certo un reazionario, anche perchè mio papà era un impiegato al Lloyd. Eravamo dei piccoli borghesi. Mio papà è diventato democristiano. Non c’erano fascisti nella mia famiglia, anche prima della promulgazione delle leggi razziali. Ma non eravamo neanche antifascisti. Eravamo come la maggioranza degli italiani. La storia che passiamo per fascisti è veramente pazzesca, se solo pensa che quattro persone della mia famiglia sono morte nei Lager. A meno che non conti il mio tema per l'esame di maturità, quando scrissi che ”Mussolini è grande!” (e presi un bel 9…)».
Radio, teatro, carta stampata: quale mezzo vi era più congeniale?
«Intanto si trattava di almeno due linguaggi: quello delle ”Maldobrie”, che a Faraguna piaceva definire “linguaggio inventato”, ma che era sintetico, più che inventato: era una sintesi di triestino e istriano e anche qualcosa di veneziano. Invece, l’idioma del ”Nonéto” era il vero triestino. E forse l’impronta maggiore sulle ”Maldobrie” è di Faraguna, mentre il ”Nonéto” era un poco più mio, perchè era il dialetto che si parlava a casa mia».
Da dove prendevate spunto?
«Girando tra la gente, ascoltando le ”ciàcole”, le chiacchiere, per strada, nelle piazze, sugli autobus. Fu Faraguna, per esempio, ha sentire il commento “mi credo che i scrivi sta roba per insempiar la gente” e altre battute in vernacolo di ”Cossa dirà la gente?”. Poi c'era anche la famiglia, perchè Mariano era il più giovane di tre fratelli assai più vecchi di lui, mentre io ero figlio unico, cosicchè entrambi eravamo ”i putèi” e passavamo il tempo ad ascoltare i grandi, senza interloquire: io ho sempre ascoltato quel che dicevano mia nonna, mia bisnonna, i miei zii (quelli che poi sono finiti a Auschwitz)… Idem Faraguna, che in più conosceva bene Istria e Dalmazia e andava in vacanza ad Albona. Insomma, eravamo due ”spugne” ed era naturale che poi travasassimo tutto nei nostri lavori a quattro mani».
Qual è il segreto della vostra popolarità?
«La nostra fortuna è l’essere stati sempre in sintonia con la maggioranza, fin dal '49, la prima volta che si votò a Trieste da cittadini liberi. E già da quella volta i risultati elettorali rispecchiavano quello che noi sostenevamo con tutti i partiti italiani della maggioranza e – visto che nel '48 Tito era stato rinnegato da Stalin – anche parecchi comunisti, a cominciare da Vidali, che quando tornò a Trieste risvegliò l'italianità di quei comunisti che erano stati ridotti al punto di fingersi ”slavi”».
Oggi vi leggono anche i giovani?
«Credo di sì, anche perchè quello che era ricordo, a un dato momento si è trasformato in fiaba. È una favola, perchè effettivamente quel mondo oggi è inconcepibile, se non con la fantasia. Noi avevamo ”caricato” il ricordo del mito asburgico, ma bisogna pensare che a quel mondo apparteneva gente che era fiera del proprio lavoro, qualsiasi fosse, e che ne indossava la ”divisa”: traversoni di cuoio, ”flaide”, tute bianche, tute blù… Erano tutti riconoscibili. Vedevi uno e dicevi: quello è un elettricista, quello è un falegname, quell'altro un macellaio… E si sentivano tutti altrettanto orgogliosi come gli arciduchi di essere quello che erano: dei bravi artigiani, negozianti, scalpellini, autisti del tram, operai e cantierini… Oggi non è più così».
Oggi si ride più o meno di una volta?
«Ci sarebbero tante cose da ridere, e per questo io rimpiango la ”Cittadella” e la possibilità di ridere un poco di tutti, senza acredine, restando amici. A proposito, il personaggio di Druse Mirko, che i nostri detrattori ci rimproverano, fu effettivamente uno sbaglio da parte nostra».
Quale?
«Dargli inizialmente quel cognome, Mirko ”Drek”. Ma senza averne l’intenzione, perchè in tedesco la parola non aveva quel senso ”cambroniano” che ha in sloveno soprattutto. Quando ero bambino, per la mia Fräulein, ”drek” era tutto ciò che era sporco, e basta. Questo ci possono rimproverare, perchè altrimenti Mirko era un personaggio simpatico: non era il barbaro slavo, bensì la vittima di Tito, dei politicanti dell'una e dell'altra parte».
Viene spontaneo rubare qualche verso a ”Serbidìola”, il libro del 1960, di cui la Mgs Press ha da poco sfornato la dodicesima edizione.
Niente confin de Stato né dogane, né dazi…
«”… de qua fin i Carpazi”! Era l’Austria-Ungheria, ma viene subito in mente l'Unione Europea, che è appunto un impero allargato. Peccato che non si siano accorti che un ”impero” deve avere un popolo guida, altrimenti va in pezzi».
Co' ierimo putei ghe iera el '29…
«Avevo 5 anni e mi ricordo il grande freddo. Mia mamma diceva a mio papà di non andare al Lloyd, al lavoro (”Iera el jazo, iera terribile, no se gà mai visto!”), ma lui, siciliano testardo, ci andava lo stesso».
Fu anche l'anno della grande crisi…
«Sì, ma in America. Da noi è venuta dopo, piano piano, nel 1931. L'Italia era già abbastanza mal messa e povera di suo, per non subire contraccolpi. Oggi è tutto diverso. Crolla Wall Street e anche noi ci troviamo in braghe di tela».
C'è una parola per definire i triestini?
«Ufficialmente una sola, ”melòni”. Ma io preferisco sicuramente ”mona”. Non scherzo. Perchè è una parola in un certo senso bonaria, adesso finalmente sdoganata, come lo era sempre stata a Venezia. Non c’è quasi mai astio nel dire a uno ”mona!”, al massimo diventa spregiativa con l'aggiunta dell'aggettivo: “povero mona!”».