STORIA I documenti dedicati alle vicende dei prigionieri di guerra sono
stati secretati fino al 1997
Nelle carceri di Tito 50mila italiani
Un saggio di Costantino Di Sante racconta una tragedia a lungo taciuta
Nel maggio 1945 la Venezia Giulia sotto il controllo dei partigiani di Tito,
fu considerata zona annessa alla Jugoslavia e divisa in due zone: Litorale
sloveno e Istria croata. «Secondo gli jugoslavi, questa inclusione fu il
risultato di considerazioni differenti, e attinenti alla natura stessa del
territorio e della nazione jugoslavi: la configurazione geografica, le
questioni etniche ed economiche, e soprattutto le valutazioni storiche e
politiche. In particolare, veniva rivendicato l'apporto determinante dato
alla lotta di liberazione dal nazifascismo e si denunciava l'aggressiva
politica imperialistica italiana che aveva portato repressioni,
snazionalizzazioni e oppressione culturale delle comunità slave». La crisi
che aveva investito parte di questo territorio si risolse solo il 9 giugno
seguente con l'accordo di Belgrado tra angloamericani e jugoslavi. Il
temporaneo compromesso trovato portò alla delimitazione del settore (linea
Morgan) in due zone: quella B, che rimase sotto la Jugoslavia, e la zona A,
comprendente anche la città di Pola, sotto il controllo del «Governo
militare alleato».
Durante la dominazione jugoslava si registrarono arresti, spoliazioni,
condanne, uccisioni e deportazioni. Quest'opera di «epurazione» colpì
fascisti e collaborazionisti, ma anche coloro che semplicemente si
opponevano all'annessione, e non mancarono casi di vendette e omicidi.
Malgrado il coinvolgimento nelle violenze anche di persone non direttamente
compromesse con il passato regime, le direttive delle autorità jugoslave non
miravano a colpire gli «italiani» in quanto tali. In questo senso i dispacci
di Edvard Kardelj, inviati ai capi sloveni, furono molto chiari: «È
necessario imprigionare tutti gli elementi nemici e consegnarli all'Ozna
«Organ Zasvtite Naroda (Armije) – polizia segreta jugoslava» per
processarli. Epurare subito, ma non sulla base della nazionalità, bensì su
quella del fascismo».
Non sempre queste disposizioni furono seguite dai partigiani titini nel
caotico maggio del 1945. Alcune delle persone catturate furono eliminate
arbitrariamente o giustiziate e gettate nelle foibe. Comunque, la maggior
parte degli arrestati fu rilasciata dopo pochi giorni, mentre altri finirono
nei campi di concentramento e nelle carceri jugoslave. Una buona parte di
questi, durante l'estate successiva, fece ritorno in Italia; altri,
condannati ai lavori forzati, tornarono dopo diversi mesi o morirono di
stenti durante la dura detenzione. Le liste dei presunti «dispersi» stilate
nel dopoguerra, in quanto non sempre aggiornate rispetto ai rimpatri
avvenuti, hanno favorito tesi esagerate sul numero di caduti e, soprattutto,
degli infoibati.
Nel corso degli anni Venti e Trenta, la città di Trieste aveva visto sorgere
e affermarsi un «fascismo di frontiera» aggressivo e nazionalista. La
politica che il regime fascista aveva attuato nella Venezia Giulia si era
contraddistinta per l'oppressione delle minoranze slovena e croata e per
l'opera di snazionalizzazione di quei territori, supportata da una forte
propaganda di razzismo antislavo. All'opera di italianizzazione forzata si
erano affiancate l'azione poliziesca e l'attività del Tribunale speciale per
la difesa dello Stato contro gli antifascisti e il ribellismo di sloveni e
croati. Su queste direttrici, Mussolini cercò di saldare il consenso della
comunità italiana. Consenso garantito «dalla maggioranza dei ceti piccolo e
medio-borghesi "educati" a identificare l'italianità con il fascismo». Sono
le basi sulle quali il fascismo di frontiera preparò e mise in atto la
conquista verso l'Oriente balcanico, tenendo desta l'attenzione sui temi
irredentistici della «Dalmazia Italiana».
Durante la campagna militare, Trieste e l'intero Friuli Venezia-Giulia
rappresentarono le immediate retrovie con le quali garantire l'espansione e
l'annessione dei territori conquistati ad Est. Ma è con l'occupazione
tedesca, dopo l'8 settembre 1943, e la costituzione della Operationszone
Adriatisches Küstenland (Zona di operazioni del Litorale adriatico) che la
città e le province comprese in questa vasta regione furono direttamente
coinvolte nella feroce repressione nazifascista. Il simbolo di questa
violenza fu rappresentato dal Polizeihaftlager (campo di detenzione e di
polizia) della Risiera di San Sabba. Il campo ebbe molteplici funzioni,
anche di smistamento degli ebrei verso Auschwitz, ma fu soprattutto un campo
di tortura, detenzione ed eliminazione dei resistenti.
Significativa, nell'opera di repressione, fu la collaborazione dei reparti
di polizia italiani e dei nazionalisti sloveni e croati. Nella complessa
situazione in cui si venne a trovare la città di Trieste, un ruolo ambiguo
fu giocato anche dal podestà Cesare Pagnini e dal prefetto Bruno Coceani,
graditi ai tedeschi, come parte delle classi dirigenti che benevolmente si
schierarono con questo in chiave antislava. La costituzione della Guardia
Civica, con compiti istituzionali e di controllo repressivo, fu piuttosto
equivoca: di fatto rappresentò lo strumento attraverso il quale i tedeschi
reclutavano e tenevano sotto controllo i giovani che avrebbero potuto
aderire al movimento di resistenza. Questo, inoltre, era egemonizzato dal Of
che guardava con sospetto l'antifascismo italiano. Per chi non aveva ancora
militato nel partito comunista, l'adesione a questo non risultò semplice.
Nella città, ma anche nella Venezia Giulia, il movimento italiano di
Resistenza si scontrò con quello jugoslavo sulla questione nazionale. I
difficili rapporti furono segnati dall'intransigenza di Tito nel voler
occupare e annettere gran parte della Venezia Giulia, e da una oscillante
politica del Pci sulla questione del confine orientale. Contrasti che si
consumarono anche all'interno del Cln giuliano, con l'uscita dei comunisti,
e che videro il loro epilogo più tragico con l'eccidio di Przûs, in cui i
partigiani garibaldini, il 12 febbraio 1945, uccisero gli altri partigiani
appartenenti al formazione «Osoppo» composta da democristiani e azionisti.
Il Cln triestino dovette combattere su due fronti: l'occupazione
nazifascista e le mire annessionistiche jugoslave. Il 30 aprile si trovò
persino a respingere le proposte di un'unione con i fascisti in chiave anti
jugoslava.
Costantino Di Sante