di Kristjan Knez
Oggi è sufficiente entrare in un qualsiasi negozio e si ha la possibilità di acquistare una confezione di sale marino, spendendo poche decine di centesimi di euro o qualche kuna. Il bianco cristallo è utilizzato in buona parte in cucina per dare sapore alle pietanze e lo vediamo tutt'al più come un prodotto "comune", perciò non gli attribuiamo un'eccessiva importanza. Per siffatto motivo è difficile considerare, nella sua giusta dimensione, quello che fu un segmento primario dell'economia pubblica. Lungo i lidi dell'Adriatico nord-orientale, le saline sono in buona parte scomparse. Negli ultimi tre secoli, con l'incalzare della modernità, a varie riprese sono venute meno quelle aree umide, situate perlopiù nelle zone conosciute come valli costiere, o alluvionali, che l'uomo aveva trasformato e modificato radicalmente, creando un'industria completamente naturale. Di queste aree così specifiche e al contempo particolarmente delicate e fragili, all'alba del terzo millennio ne esistono solo due, e cioè le saline di Stagnano e quelle molto più ampie del Vallone di Sicciole, vale a dire quelle di Lera e di Fontanigge, che dal promontorio di Sezza e dalla località di San Bortolo si estendono sino al fiume Dragogna e all'odierno confine sloveno-croato. Un'area adibita a salina esisteva, sino alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso, anche a Santa Lucia non lungi da Portorose. Anche in quella baia l'intervento umano aveva creato canali, argini, cavedini, cioè le vasche d'evaporazione, le tipiche casette in pietra bianca di Canegra, ma fu stravolta con la creazione di un moderno marina.
Quanto possediamo attualmente e si conserva, con non poca fatica, rappresenta un patrimonio non indifferente, in primo luogo perché rappresenta l'ambiente in cui la popolazione locale dette vita ad una florida attività economica, indubbiamente uno dei settori trainanti dell'economia piranese nel corso del tempo, che coinvolse un nutrito numero di famiglie della patria di Tartini e delle località limitrofe e che contribuì a forgiare una vera e propria civiltà del sale. Un'attività così antica e profondamente radicata dette origine anche ad un vocabolario particolare, ad esempio, con una terminologia specifica, con lemmi e modi di dire che sono tipici e presenti solo nel vernacolo piranese.
Un binomio perfetto
La raccolta dell'"oro bianco", oltre a rappresentare un segmento produttivo di primaria importanza, ebbe ricadute positive sull'intera società, e non a caso un detto evidenziava che la località era sorta sul sale, ossia grazie ad esso. Pirano e il sale rappresenta un binomio perfetto. Escludere quel prodotto prezioso, ricavato dall'acqua marina, con il favore del vento e del sole, non gioverebbe certo a comprendere i tempi andati della città di San Giorgio, anzi si rischierebbe di non cogliere lo sviluppo in senso lato della cittadina adriatica. Il sale era talmente presente nella vita quotidiana, nei rapporti tra la popolazione e la municipalità, nonché tra quel comune e la Repubblica di San Marco, che costituisce, senz'altro, il filo rosso che ci permette di analizzare buona parte della storia pirane-se. Dalla consultazione delle fonti, come i testamenti o i libri dei vicedomini, per fare un esempio, si evince il ruolo centrale che il sale medesimo aveva e si comprende altresì quanto esso avesse giovato a quella collettività tra il tardo medioevo e l'età contemporanea.
Le prime notizie
Non abbiamo notizie sulla salinatura per i secoli antecedenti l'anno Mille, infatti nessuna fonte, nemmeno letteraria, menziona tale attività nel Golfo di Trieste. Sappiamo, invece, che nel VI sec. d. C. sulle isole Brioni il vescovo Eufrasio possedeva, tra l'altro, anche dei bacini di evaporazione dai quali ricavava il sale. Per quanto concerne Pirano, le sue saline furono citate per la prima volta nel 1274 nello statuto comunale, che rappresenta il più antico documento di quel tipo ancora conservato nella nostra regione. Si presume che quell'attività fosse presente già precedentemente. Prima che Venezia estendesse il suo controllo sull'intero Adriatico orientale e le sue navi svolgessero un'azione di polizia, battendo in duri scontri i pirati che infestavano quel mare, la vita delle cittadine costiere conobbe un diverso corso. Titubanti di inoltrarsi lontano dalla costa, le popolazioni rivierasche dovettero riparare in una sorta d'autarchia e pertanto dovevano produrre in loco quanto necessitavano. Fu in quella particolare età storica che nell'area adriatica, e in generale nel Mediterraneo, i borghi iniziarono ad ospitare al loro interno gli orti, mentre in prossimità degli stessi, qualora vi erano favorevoli condizioni geografiche, non era insolito trovare delle saline, perlopiù di limitate dimensioni, che producevano un prodotto indispensabile ed essenziale.
Regole dettagliate
La produzione del sale nel comune di Pirano era legata a regole particolari e ad una "limitazione" ossia alla realizzazione di una quantità massima oltre la quale non si doveva andare. In quel territorio altresì non si commerciava con i mercanti del nord, poiché l'acquirente della totalità del sale era Venezia che ne deteneva il monopolio.
"La Terra di Piran" si legge nella relazione del podestà e capitano Agostino Barbarigo, del 1669, "(…) è la meglio di tutta l'Istria essendo ripiena d'habitanti di buone facoltà, facendo ogli et Sali in gran copia, e questi tutti sono sempre venduti al-l'EE. VV. non facendosi alcun'estra-tione per terre aliene, come è concessa a Capo d'Istria et Muggia". Accordi molto dettagliati (definiti "partito de' sali"), tra la comunità, in qualità di produttore, ed i Provveditori al Sal, come compratori, definivano il prezzo d'acquisto per ogni moggio di prodotto (che corrispondeva a circa 900 chilogrammi). Sin dal Medioevo si era stabilito che la settima parte del sale prodotto spettasse al comune (consuetudine che rimase in vigore sino al 1807), e ciò costituiva una fonte non indifferente che permetteva a quel municipio di incamerare introiti importanti. La quinta parte, invece, era a disposizione dei produttori diretti, almeno dal XV secolo in poi. Il Consiglio dei XX dei Sali, la cui funzione era la verifica periodica del prezzo del sale a Venezia e il controllo del funzionamento delle saline, annoverava ben sette membri popolari. Attorno all'industria salifera gravitava buona parte della società pira-nese, dalla cui attività ricavava una fonte di guadagno cospicua. E non poteva essere diversamente, difatti è sufficiente rammentare che il 35-40 per cento della forza lavoro era impiegata nei bacini di cristallizzazione, mentre i capitali tesaurizzati dai locali notabili provenivano proprio da quell'attività, e si aggiravano tra il 40 ed il 70 per cento. Il vescovo di Cittanova, Giacomo Filippo Tom-masini, annota, alla metà del XVII secolo, che le saline di Pirano superavano per quantità prodotta tutte le altre della provincia e, soprattutto, "(.) portano una gran ricchezza a quella comunità, e ai contadini".
II contrabbando
Accanto a tale commercio, definito da accordi precisi, vi era il contrabbando , fenomeno che accompagnò tutte le età storiche, e che rappresentò una fonte di reddito alternativa e non affatto disdicevole. Per tale ragione, accanto alla produzione salifera regolata, i salinai realizzavano un'eccedenza che prendeva altri sbocchi. Per frenare i prelievi illeciti di sale il governo veneziano stabilì severe regole alle quali i Piranesi dovevano attenersi. Nel 1567, ad esempio, una decisione prevedeva che i medesimi "(.) non possino far contrabbandi, sia terminato che quando anderanno alle sue saline con le barche, non possino in alcun modo portar arbore, vela, né ferro da dar fondi et similmente non possino tener le predette robbe fuora de Piran in alcun loco, over parte per andar alle saline et se qualcheduno se ritrovasse in detti mancamenti, overo in qualche altro, debbano perder la barca et tutte le predette cose prohibite essser levate che siano de quelli li quali le ritrovassero et oltre di ciò paghi il contraffacente lire venticinque per ciascheduna volta".
Per secoli la flotta mercantile piranese era composta soprattutto da imbarcazioni di piccole dimensioni, cioè i "barchini", adibiti in primo luogo per collegare la città con le valli e l'area delle saline ed erano utilizzati altresì per il trasporto del sale dalle zone di produzione ai magazzini, ma anche per la pesca e per le attività commerciali. Grazie a queste piccole barche non pochi Piranesi contribuirono ad alimentare il contrabbando. Le medesime, per la caratteristica che abbiamo ricordato, non erano in grado di trasportare notevoli volumi di prodotto. Tale commercio illegale non poteva manifestarsi alla luce del sole, richiedeva una notevole destrezza da parte dei marittimi, i quali si spostavano specialmente con il calare delle tenebre, in modo da eludere i controlli delle autorità. I rappresentanti del governo di San Marco vigilavano con particolare attenzione le aree salifere, soprattutto durante le fasi di dislocamento del prezioso prodotto. Era doveroso, pertanto, "(.) far seguire opportunamente gl'incanevi de Sali, massime di quelli delle Valli di Fasan e Strugnan in Pirano e di Muggia, più esposti al pericolo delle contrafationi (.)", scrive il podestà e capitano di Capodistria Giustinian Cocco nella relazione presentata al doge nel 1725. Attraverso tale attività, che aveva fatto conoscere i Piranesi con l'appellativo di "noti contrabbandieri", il bianco cristallo toccava Trieste e la sponda opposta: San Giorgio di Nogaro, Caorle, ossia quelle località che si potevano raggiungere mediante brevi tragitti, di qualche ora, o al massimo di una notte. Siffatti spostamenti attraverso il golfo non erano una costante solo nel Seicento o nel Settecento ma perdurarono nel tempo. Agli albori del XIX secolo, in concomitanza con l'aumento del prezzo dell'"oro bianco", si registrò una crescita del contrabbando, favorito anche dalla singolare organizzazione delle Province illiriche, le cui saline formavano una sorta di extra-territorialità e facevano capo al Regno d'Italia. Anche nel difficile inverno 1944-45, quantitativi di sale raggiungevano le località costiere del Friuli e, grazie al baratto, era possibile rifornirsi di quanto si necessitava, soprattutto farina e granaglie.
Dazi e smercio
Il Capodistriano con la sua zona salifera attirava annualmente decine di migliaia di commercianti dalle regioni interne che si calavano con i loro animali da soma, donde "mussolati"o "Cran-zi". I medesimi davano vita ad un vivace scambio di prodotti poiché introducevano le pelli, il legno lavorato, il ferro e lungo la costa prelevavano, oltre all'"oro bianco", non poche mercanzie che i mercanti della Serenissima importavano dalle lontane terre del Levante. Capodistria e Muggia ottennero dalla Dominante una sorta di "libertà commerciale" perciò il sale che riuscivano a produrre erano in grado anche di smerciarlo agli acquirenti tradizionali, mentre all'autorità veneziana, cioè al podestà e capitano nella città di San Nazario, si versava l'apposita imposta, la "cassa de' sali", sul prodotto realizzato e commercializzato. Dell'intera produzione solo il dieci per cento spettava ai Veneziani, il resto era liberamente venduto nell'entroterra. Il mercato giustinopolitano era contraddistinto da scambi di notevole importanza, tant'è che dalla stessa città lagunare giungevano carichi di sale per immetterli nel circuito delle vendite. La comunità di Muggia, che possedeva ugualmente delle piccole saline, pagava un dazio corrispondente all'ottava parte della sua produzione salifera, mentre il resto era liberamente smerciato. Anche in quel caso, attraverso il contrabbando, una buona parte del sale giungeva a Trieste. Le "calate" dei commercianti verso i domini della Repubblica sovente "infastidiva" i vicini arciducali e di conseguenza non pochi erano gli screzi ed i tentativi tesi a deviare il flusso commerciale verso il capoluogo giuliano, città della corona asburgica che annoverava pure delle saline. I dissapori non erano dettati da semplici gelosie bensì riflettevano interessi economici specifici. Notevoli quantitativi di sale erano destinati alle terre settentrionali, in quanto costituiva un prodotto indispensabile per la conservazione delle carni, specie quelle suine.
I proprietari
Prima della nazionalizzazione dei bacini di cristallizazione di Sicciole, avvenuta nel 1904 per opera dell'Erario austriaco, gli stessi erano suddivisi tra una moltitudine di proprietari. In questa pletora rammentiamo i grandi possessori, come i Grisoni che detenevano ben 450 cavedini, i borghesi Barbojo e non poche famiglie che
annoveravano magari pochi bacini di evaporazione. Tra i possessori vi erano anche i Frati francescani le cui entrate, ricavate dalla vendita del sale, erano utilizzate, soprattutto per adornare la chiesa, come scrive il visitatore apostolico Agostino Valier nel 1579 nella sua relazione. La proprietà privata si era sviluppata in particolare dal XIV secolo in poi ossia in concomitanza con il notevole sviluppo riscontrato dal commercio del sale. Precedentemente, invece, l'intera area adibita a saline era di pertinenza comunale, in quanto la medesima era situata sul territorio municipale, e quindi appaltava i bacini di cristallizzazione ai soggetti interessati (patrizi e borghesi). Con il tempo, la situazione mutò ed i medesimi divennero possessori, infatti, lo stesso statuto comunale del 1358 li riconosceva come tali. Nel 1384, invece, si era stabilito che le parti abbandonate delle saline, cioè non in funzione da almeno tre anni, potevano essere acquisite da qualunque cittadino e considerarle di sua proprietà.
Dopo la Restaurazione sorsero i nuovi magazzini, nel 1820 l'"Antenal", abbattuto nel secondo dopoguerra, nonché il "Mon-fort" e una struttura minore a partire dal 1824. In quel periodo i bacini di cristallizzazione superavano le 7000 unità e occupavano una superficie di oltre 6, 2 milioni di metri quadrati.
Le cure termali
I primi esperimenti che sfruttavano l'acqua madre delle saline furono avviati nel 1879 dal medico piranese Giovanni Lugnani il cui intento era curare i disturbi reumatici. Il 1885 rappresenta una data importante in quanto dopo tre soli bagni nell'"acqua madre" scomparvero i dolori al gomito e al ginocchio del medico chirurgo mantovano Cirillo Salvetti. Con altri due trattamenti e grazie ai massaggi con il fango naturale delle saline, il cliente riacquistò anche la mobilità degli arti. Questo non fu un caso isolato in quanto vi furono anche altri casi di guarigione. In quello stesso anno si ebbero le prime gite organizzate e si iniziava addirittura a disporre di locali per soggiornare gli ospiti che lentamente giungevano in quella baia.
Le cure termali gettarono le basi del turismo a Portorose, che di lì a breve divenne un importante centro di villeggiatura, anche grazie all'impulso del podestà Domenico Fragiacomo il cui intento era emulare l'esperienza di Abbazia, che in quel periodo stava annoverando una soddisfacente presenza di ospiti provenienti dal vasto impero austro-ungarico. La fine del XIX secolo rappresentò anche la parabola discendente della salinatura locale, infatti l'esportazione del bianco cristallo – che ancora
negli anni Sessanta e Settanta arrivava in Olanda, in Brasile o in India, grazie alle navi che salpavano dalla città di San Giusto – si arrestò e anche lo sfruttamento industriale (soprattutto per i concimi chimici) conobbe un arresto.
Impiego per tutti
Benché il sale prodotto in loco non riscontrasse più l'importanza centrale che annoverava tra il Medioevo e l'età moderna, la sua produzione rappresentava ancora un'attività redditizia nei cui stabilimenti trovavano impiego centinaia di famiglie locali, le quali, dopo la festa del patrono cittadino, San Giorgio, solevano abbandonare Pirano per stabilirsi temporaneamente nelle saline. Nell'area del Vallone di Sicciole esistevano delle casette in pietra carsica, realizzate perlopiù nella seconda metà del XVIII secolo, cioè negli ultimi decenni del dominio veneziano, e nella prima metà del secolo successivo se ne annoveravano ancora 440. Oggi, dopo decenni di abbandono e senza una regolare manutenzione, quegli edifici sono ormai in buona parte diroccati, con i tetti crollati ed invasi dalla vegetazione. Eppure sino a mezzo secolo or sono i medesimi ospitavano ancora centinaia di persone impiegate in quel tradizionale settore economico. Quelle abitazioni stagionali avevano una funzione ben precisa, pertnto al pianoterra si trovava il magazzino per la conservazione del sale prima del-l'"incànevo", ossia l'immagazzinamento nelle strutture più capienti di Santa Lucia e di Portorose. In quell'ambiente vi era una scala interna che conduceva al piano superiore ove la famiglia viveva, qui c'era la cucina, la camera dei genitori e un'altra stanza per i figli. Il viaggio, che avveniva via mare, è descritto anche da Giuseppe Ca-prin, che, nelle "Marine istriane" del 1889, riporta: "Partono i battelli e ciascuno trasporta la mobilia di una casa: i paglioni, le sedie, la madonna, qualche gabbia, boccioni rivestiti di giunchi, la piatteria, le reste d'aglio, le galline e sino il gatto". Il lavoro si svolgeva con il ritmo di sempre, nonostante il passare dei secoli, difatte le tecniche di raccolta del sale rimasero le medesime, pressoché immutate. Lo scrittore triestino annota ancora: "Sotto il calore ardente del tramonto il sale, già formato nei bacini, scintilla come polvere di vetro: è una nevicata che copre tutto il vallone e che in breve sparisce, raccolta sull'orlo dei letti dalle svelte salinarole".
L'abbandono
Il secondo dopoguerra fu contraddistinto dal tramonto della salinatura. Le ragioni della decadenza e della chiusura degli stabilimenti sono molteplici. In primo luogo la produzione, che avveniva secondo i metodi tradizionali, non era più concorrenziale. Non va poi scordato l'esodo della stragrande maggioranza della popolazione autoctona, le cui partenze spopolarono il territorio, ma anche lo impoverirono, perché se ne andarono anche quei saperi legati ai mestieri e alle attività secolari, stratificati nei singoli individui e che si tramandavano all'interno delle famiglie di generazione in generazione. Lo stillicidio delle partenze determinò il declino e/o la contrazione di non poche tradizionali attività: la cantieristica, rappresentata dal lavoro nei piccoli squeri, l'agricoltura, che, specie nel Piranese, era caratterizzata dalla coltivazione delle primizie sui terrazzamenti delle colline trasformate dall'uomo in orti, i cui prodotti arrivavano anche sul mercato di Trieste, e la produzione del sale appunto. Vi è una stretta correlazione tra l'esodo ed il venir meno del lavoro all'interno delle saline. Dal termine del conflitto, per circa un decennio, tale attività aveva conosciuto ancora i ritmi di sempre: le persone più anziane continuavano ad essere impiegate nei bacini di cristallizzazione, in primavera si stabilivano nelle saline e la produzione non aveva subìto grosse contrazioni. L'inizio della fine si manifestò, invece, alla metà degli anni Cinquanta del secolo scorso, parallelamente al culmine dell'esodo che stava svuotando sia il centro urbano sia le località limitrofe. Nonostante il tentativo di rimpiazzare i lavoratori, con manodopera fatta arrivare anche dal lontano Prekmurje (Slovenia orientale), fu molto arduo ovviare ad una situazione difficile. Malgrado vi fossero ancora dei lavoratori del posto essi erano insufficienti a tenere testa ad un'attività che si estendeva su una superficie piuttosto ampia. Anche se vi era la volontà di continuare con il lavoro apparve chiara l'impossibilità di mantenere in vita tutti gli stabilimenti.
In quest'ottica, nel 1968, furono abbandonate le saline di Fon-tanigge, oggi parco naturale, furono chiuse quelle di Santa Lucia, e successivamente bonificate, mentre quelle di Lera e di Strugna-no rimasero aperte solo in parte, e ancora oggi producono il bianco cristallo. Il resto è invaso dalla vegetazione – quell'ambiente rappresenta altresì un habitat ricco di specie animali – e ogni tanto si nota qualche granchio rattrappito.
Kristjan Knez
Fonti e bibliografia consultati:
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(Il presente testo, rivisto e ampliato, è stato presentato al convegno " Storia del sale nell'Alto Adriatico: le sue vie di trasporto e commercializzazione " – Muggia, 2 maggio 2009)