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Identità e dialogo (Voce del Popolo 01 lug)

di Ezio Giuricin

È da qualche tempo, sicuramente da quelli dei violenti attacchi del “Maspokret croato” o dei vertici della Lega dei comunisti contro la minoranza, che il Centro di Ricerche Storiche ed i suoi collaboratori non venivano accusati di essere “nazionalisti”, di minare le “magnifiche sorti e progressive” di integrazione concesse loro dalla maggioranza, di eccedere di “vittimismo”, e di considerare – con un approccio revisionista e di parte –, “buoni” gli italiani e “cattivi” tutti gli altri.

Le accuse sono giunte questa volta dal lettore Andrea Degobbis che, con una lettera in redazione alla “Voce”, ha criticato duramente gli interventi svolti alla recente presentazione del volume sulla storia della Comunità Nazionale Italiana.

Siamo nazionalisti? Siamo di parte? Riteniamo cocciutamente di avere noi tutte le ragioni e gli altri sempre ed irrimediabilmente torto? Ci piace crogiolarci in un cronico vittimismo autolesionistico, e dare tutta la colpa dei nostri mali alla maggioranza, agli “slavi cattivi e comunisti”?

Sono accuse che non suscitano in noi alcun risentimento, e alle quali non vogliamo rispondere con indignazione. Il motivo è semplice: non ci toccano. La nostra coscienza di uomini, di cittadini, di corregionali, la nostra formazione e il nostro percorso intellettuale ci hanno dato la fortuna e il privilegio di non dover soggiacere all’incanto di queste “sirene”, ai richiami del “branco”, alle acritiche ossessioni della propria appartenenza.

Siamo vissuti sufficientemente a lungo per capire che la propria identità non può mai essere brandita contro la ragione, contro il dovere (e il piacere) del rispetto e della comprensione degli altri, che l’autocritica, l’autoironia, la consapevolezza della complessità e la capacità di dialogo sono le chiavi per tentare di comprendere chi siamo e quello che ci sta intorno.

Ma le domande – per chi le fa in buona fede –, sono sempre legittime, e per noi è doveroso non sottrarci al confronto, all’obbligo, dettato dalla nostra coscienza, di interrogarci se quanto abbiamo scritto o detto, studiato o documentato sia giusto oppure sbagliato.

Nelle critiche il lettore – a quanto pare –, mette in discussione l’impianto e l’approccio complessivi della storia dei “rimasti”.

La storia della minoranza italiana doveva cominciare – secondo lui –, dagli anni Venti e Trenta e da un’attenta analisi delle “colpe” del fascismo. Abbiamo commesso dunque un errore: quello – che periodicamente ci viene attribuito da varie sfere politiche ed intellettuali della maggioranza –, di non usare pedissequamente il criterio dell’equivalenza e del contrappeso delle sofferenze e delle oppressioni, della logica del rapporto tra causa ed effetto.

La “ragione” del male subito da una comunità sta, dunque, in una sua “colpa” precedente, in un torto di cui essa deve simbolicamente portare il peso, in un’offesa inflitta, da altri, a suo nome. E così di seguito, in una spirale di colpe e responsabilità contrapposte – quasi si trattasse di una tribale “vendetta di sangue”, di una legge del taglione –, che, se riesumate o descritte, debbono sempre bilanciarsi: le vittime di una “parte” debbono pesare – a libbre o a spanne –, quanto quelle dell’altra, oppure non si può parlare di un torto senza mettere a fianco il suo naturale, storico contrappeso.

È logico che anche nella storia, come in tutte le altre branche dello scibile umano, vige la regola della causa e dell’effetto, del prima e del dopo, del contesto, delle premesse e delle condizioni che hanno reso possibile un fenomeno o un evento.

Il fascismo di confine in queste terre, ed i suoi devastanti effetti sull’Istria sono stati ampiamente studiati dalla storiografia italiana (un altro aspetto è se siano stati sufficientemente divulgati) e soprattutto sono stati accuratamente analizzati e documentati (in decine di opere) dal Centro di Ricerche Storiche di Rovigno.

Gli autori dei volumi sulla storia della CNI ne hanno ampiamente scritto e parlato (ricordiamo, per quanto riguarda Luciano Giuricin, le opere “Fratelli nel sangue”, “Rossa una stella”, le centinaia di pagine pubblicate sull’argomento su riviste e giornali, o le relazioni a simposi e conferenze).

L’opera sul passato dei “rimasti” nel suo primo capitolo, inizia dal 1943, dal momento in cui, cioè, proprio a causa del fascismo, la Venezia Giulia e l’Istria vengono scosse da eventi epocali che segneranno prima l’isolamento della componente italiana e quindi una lacerazione e uno sconvolgimento radicali degli equilibri etnici, sociali e politici della regione.

Ma il punto è un altro: noi crediamo che la componente italiana di queste terre, e soprattutto i rimasti, non debbano scontare le colpe del fascismo, costituire, con le loro vicissitudini e sofferenze, un “contrappeso” simbolico all’amaro piatto del Ventennio.

Gli italiani dell’Istria e di Fiume hanno combattuto, come gli sloveni ed i croati e gli appartenenti ad altre nazionalità, contro il fascismo, e come essi, ne sono stati vittima; tra le loro file, in Istria e Fiume, come tra i croati e gli sloveni, vi sono stati persecutori e perseguitati. Riteniamo che gli antifascisti italiani della Venezia Giulia e, in particolare, dell’Istria (di ogni credo politico) abbiano dato un contributo importante, significativo, quanto e forse più delle altre componenti. In virtù, soprattutto, del loro internazionalismo. Perché se è vero che la popolazione slava ha subito le umilianti sofferenze della snazionalizzazione da parte del fascismo, gli antifascisti italiani – sempre solidali con le vittime di ogni tipo di oppressione nazionale, oltre che politica e sociale –, alla fine hanno dovuto rinunciare, in nome di quelli che avrebbero dovuto essere i comuni ideali della Resistenza, alla loro Patria.

Queste terre dopo la Seconda guerra mondiale hanno subito una delle lacerazioni sociali, etniche ed umane più profonde e tragiche della storia dell’Adriatico orientale: l’esodo. Noi pensiamo se ne debba parlare, lo si debba studiare e raccontare non per fare del facile (e soprattutto inutile) vittimismo, ma per cercare di capire cosa sia oggi l’Istria, Fiume e la Dalmazia e quali percorsi e progetti si possano proporre per cercare di superare, almeno in parte, questa ferita e questo vuoto (che toccano direttamente anche croati e sloveni) in un clima di ricomposizione e di ritrovata convivenza.

Di quale tolleranza, integrazione e convivenza potremo parlare sino a che l’esodo continuerà ad essere considerato un “tabù” dai mass media e da molte delle istituzioni della maggioranza? Gli esuli – definiti caparbiamente “optanti” –, ancora oggi da molti, nella nostra regione, vengono considerati degli “emigrati” volontari e l’esodo – nel migliore dei casi –, solo uno spiacevole incidente di percorso. Siamo revisionisti e di parte perché denunciamo questi fatti?

La comunità italiana, a cui è stato negato ogni diritto di autodeterminazione dopo la guerra, ridotta ad una condizione di minoranza (cui va opposto non il concetto di maggioranza, ma quello di “dominanza”) è stata sottoposta ad un intenso e spesso indiscriminato processo di assimilazione, oltre che di sottomissione e strumentalizzazione politica. Ne danno conferma i risultati dei censimenti, le risultanze degli atti e dei comportamenti politici.

Decine di scuole, negli anni più difficili del dopoguerra, sono state chiuse d’imperio e mai più riaperte, centinaia di alunni sono stati trasferiti forzatamente alle scuole della maggioranza, in molte città il bilinguismo è stato cancellato e mai più ristabilito. La cornice di diritti così faticosamente conquistata in questi sessant’anni è stata spesso sistematicamente erosa ed elusa, e continua ad essere minacciata.

Noi abbiamo narrato, corredandole con documenti, le tappe ed i meccanismi di questo processo. Si tratta di vittimismo? Sono fatti che non possono essere sottaciuti quando si parla del passato, e soprattutto del presente della nostra comunità, in una società in cui comunque sono avvenuti e continuano ad avvenire importanti cambiamenti.

Nei nostri volumi sulla storia della CNI abbiamo parlato anche delle tante speranze coltivate in questi anni dai “rimasti”, dei loro progetti e dei loro sogni, della nostra voglia concreta di partecipare alla costruzione di un ambiente sociale retto dai valori della convivenza, della tolleranza e del multiculturalismo.

Ci si accusa di voler difendere un’identità anacronistica, di voler essere “duri e puri” in un mondo cosmopolita e globale ove questo essere appare illogico e irrealizzabile.

Si dimentica che il cosmopolitismo è fatto di identità, di presenze e consapevolezze in grado di dialogare, di riconoscersi e di confrontarsi. Per essere meravigliosamente diversi, ed accettare come nostra anche la diversità che è negli altri, dobbiamo sapere chi siamo. Noi lo sappiamo e ti rispettiamo.

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