Di Dignano, lo storico Francesco Petronio nella sua opera “Memorie sacre e profane dell’Istria” (1680-1681), dice che è la più bella, la più florida e la più popolata terra della Polesana. La cittadina nel Medioevo, a parte le sue certe origini romane col nome di Attinianum, sarebbe sorta “dall’unione di altre Ville che furono San Lorenzo, Guran, San Quirin, San Micel de Bagnole, Pudenzian et Midian, de’ quali se ne vedono ancora le molte rovine, e ciò per resistere con maggior forza all’incursione de li nemici della Repubblica Veneta”. Oggi l’abitato conserva ancora il suo carattere medievale con intreccio irregolare di vicoli lastricati ed edifici che sorgono all’interno dell’anello delle case che fungevano da muro difensivo. I vecchi abitanti parlano ancora un antico dialetto romanzo e sono fieri dei loro soprannomi – spesso fantasiosi, ogni famiglia ha il suo – anche se uno li unisce tutti. Infatti, in Istria sono conosciuti come “Bumbari”.
«Che jo deito l’imperatur?»
Ed ecco quindi la leggenda legata a questo soprannome. Nel corso del suo regno Francesco I d’Asburgo visitò parecchi paesi della bassa Istria tra i quali, appunto, Dignano. Il podestà, informato di una tale illustre visita, fece subito vestire gli abitanti, soprattutto le ragazze e i giovanotti, con i loro bellissimi e caratteristici costumi. L’imperatore venne accolto dalla folla con applausi, con uno spettacolo di canti e di balli popolari e il primo cittadino espresse all’imperatore la gioia sua e quella di tutti i dignanesi di averlo tra loro. Al che l’imperatore Francesco I rispose: “Davvero mi congratulo con lei e con la sua gente perché costumi, canti e balli sono davvero molto belli, però ho notato che i suoi concittadini sono un po’, come dire, burberi”.
Partito l’imperatore tutti domandarono subito all’esimio podestà: “Che jo deito l’imperatur?” Un po’ piccato il podestà rispose: “El jo deito che sogni bei, bravi ma un po’ boumbari”…
E da quel giorno “bumbari” sono rimasti!
San Quirino e il cavaliere sacrilego
Un’altra leggenda si riferisce a San Quirino (San Chirein), bizantino, compatrono di Dignano, potente protettore di tanti poveri infelici rifugiatisi nella sua chiesa per scampare all’ira d’un feroce condottiero turco che metteva a ferro e a fuoco l’intero territorio. Quando costui per fare una razzia osò penetrare nel luogo sacro a cavallo addirittura, questo si impennò, disarcionò il sacrilego cavaliere, che trovò misera morte: da quella volta nell’atrio si vede ancora, ammonitrice, l’impronta dello zoccolo ferrato della bestia. Una volta edificio paleocristiano a tre navate, l’attuale chiesetta risale al 1629 ed è posta sulla campagna verso Roveria, una volta sui confini tra due popoli, italiano e croato, sempre coesistenti pacificamente. Per questo si dice che il Santo calza su un piede una scarpa e sull’altro un’opanka ed effettivamente durante le Rogazioni le due popolazioni qui si univano e poi in processione andavano fino alla parrocchiale alternando il prega per noi al moli za nas senza che nessuno si scandalizzasse.
I sette… pali della settimana
Ed arriviamo quindi alla leggenda di un calendario proprio particolare e che si riferisce agli abitanti del Pian, una delle più popolari contrade della città.
Una volta i bumbari non avevano un calendario ma in ogni contrada c’erano sette pali che segnavano i giorni della settimana. Per sapere quale giorno fosse, ogni mattina ne veniva levato uno. Successe che una volta gli abitanti del Pian arrivassero in piazza tutti vestiti a festa. Gli altri, a vederli così parati, dissero ridacchiando:
– Ma come? Vi siete vestiti per andare a messa, poi magari in osteria e a ballare, ma oggi è sabato, mica domenica!
– Eppure su da noi c’è un palo solo! – risposero in coro.
– Per forza! Con la bora che ha soffiato stanotte ne sarà certamente caduto uno!
Infatti quella mattina la bora soffiava ancora gelata e così i poveri bumbari del Pian dovettero tornarsene a casa con la coda fra le gambe e tra le risate di tutti gli altri…
La verza gigante dell’orto di Padova
C’è poi la leggenda legata a un viaggio di due bumbari in Italia. Uno si recò a Padova e l’altro a Milano. Al ritorno, in piedi sulla Grisa, una specie di terrazzone che s’affaccia sulla piazza principale, raccontarono alla folla degli amici presenti le loro impressioni. Il primo disse infervorato:
– Durante il mio viaggio ho visto vaste distese di grano, neanche una masera!, fiori di tutti i colori nei giardini, orti colmi di frutta e verdura. Pensate che in uno ho visto una verza così grande che sotto ci potevano stare quattro buoi boscarin!
E l’altro pronto:
– Beh, io a Milano ho visto moltissimi cantieri, palazzoni, grandi fabbriche. In una, pensate un po’, cento e più operai stavano forgiando una caldaia di dimensioni enormi!
E tutti allora a chiedere interessati:
– Ma a che cosa servirà una tale caldaia?
– A cuocere la verza che lui ha visto nell’orto di Padova!
Sulla Grisa quella domenica ci fu una risata generale.
Il fiammifero sprecato
Un’altra leggenda è legata al rione di San Rocco. Qui un bel giovanotto della contrada dell’Asedo s’era fidanzato con una bella bumbarella e naturalmente veniva a trovarla ogni giorno nella sua casa. Una sera d’inverno particolarmente fredda arrivò quando sul focolare ardeva un bel fuoco. Per potersi accendere un mezzo sigaro toscano, il giovanotto accese un fiammifero, al che il padre della ragazza esclamò arrabbiato:
– Figlia mia cara questo giovanotto non fa proprio per te! Con tutto il fuoco che arde sul focolare, lui spreca un fiammifero!
E immediatamente cacciò lo spasimante e sciolse il fidanzamento.
Il tacchino… indiavolato
La seguente leggenda è legata al rione di Santa Caterina. Si narra che nella sua chiesetta, una delle più antiche della cittadina ed eretta probabilmente attorno al 1500 e che aveva sull’abside anche una bella serie di affreschi nonché sull’altare una pala del benemerito Pietro Marchesi, un giorno si udirono delle grida strane, dei rumori che impressionarono tutte le basabanchi del vicinato le quali arrivarono prontamente con rosari e libri di preghiere, senza tuttavia osare aprire la porta perché era subito corsa voce che dentro ci fosse rinchiuso nientemeno che il diavolo in persona!
Naturalmente venne subito avvisato anche il parroco il quale, accorso in fretta, con preghiere e benedizioni si diede da fare per cacciare il satanasso. Non mancarono neppure il turibolo fumigante di incenso e l’aspersorio con l’acqua santa.
Quando infine dopo tanto pregare la porta venne finalmente aperta, una grande sorpresa attendeva tutti: il diavolo che tutti temevano non era altro che un tacchino il quale probabilmente era entrato a causa della disattenzione delle donne che avevano pulito il pavimento della chiesetta.
Come finì la faccenda? Il tacchino toccò al parroco che se lo fece cucinare al forno condito con salvia e rosmarino e con un bel contorno di patate…
Le patate e i pomodori
Ed ecco infine un’altra leggenda legata ai diavoli. Si racconta che Satana possedesse un bellissimo campo dalle parti di Stanzia Salvela a due passi da Dignano. Un giorno davanti a una vecchia casita costruita con laure di pietra vide un contadino bumbaro che piangeva e gli chiese:
– Come va?
– Male, molto male! Ho una vecchia madre da mantenere, una moglie ammalata, dei figli affamati. Potessi almeno trovare un lavoro!
– Se è per questo, ti assumo subito io. Ti darò la metà di quello che crescerà nel mio campo.
– Va bene.
Nel grande campo il contadino bumbaro piantò delle patate. Quando arrivò il momento del raccolto il diavolo, nel vedere le piante belle verdi, disse:
– Io mi prendo la parte superiore e a te darò quello che c’è sotto terra.
Fu così che al diavolo toccarono le piante ed al contadino le patate.
L’anno dopo questi piantò dei pomodori. Quando le piante crebbero belle verdi, Satana disse:
– Questa volta non mi freghi! Io mi prenderò la parte che sta sotto terra e tu quella che sta sopra…
Fu così che quell’anno a Stanzia Salvela a due passi da Dignano il diavolo si prese le radici e il colono i pomodori!