di ROBERTO SPAZZALI
Vent’anni fa, estate del 1989, l’Europa centro-orientale era attraversata da un fremito che avrebbe di lì a poco cambiato il corso della storia mondiale. Qualcuno ottimisticamente lo chiamò “rivoluzione di velluto” senza prevedere cosa sarebbe successo solo qualche anno più tardi. Come duecento anni prima. Quei sei mesi che hanno cambiato il mondo sono compresi tra il massacro di piazza Tien an men e il processo sommario al dittatore rumeno Ceasescu in un’aula scolastica. Ambiente aperto e ambiente chiuso, spazio grande e spazio chiuso a contenere e delimitare una rapida successione di eventi di quello che è stato l’Ottantanove del XX secolo.
Quell’anno segnò l’inizio del mito del Nord-Est. Nel corso di un convegno organizzato da Max Streibl, successore di Franz Joseph Strauss alla guida dei democristiani bavaresi, aveva posto il problema, in chiave etno-regionalista, del riconoscimento di popoli, culture e tradizioni comuni tra Alpi e Adriatico, dando un preciso segnale ai partiti, soprattutto dell’area cisalpina, impegnati per lo più in una lotta per il potere che aveva fatto loro perdere il contatto con il paese reale. Succederà anche nel Friuli Venezia Giulia quando, caduta la minaccia antagonista interna e dei sistemi politici realsocialisti, il voto non risulterà più vincolato dall’esigenza difensiva e dall’imminenza dello scontro ideologico. Oggi è già storia o forse solo passato.
Svolte internazionali
Nel 1989 accaddero fatti internazionali che a Trieste passarono quasi inosservati: Solidarnosc entrava nella compagine di governo polacco; Austria e Ungheria decidevano unilateralmente di smantellare la cortina di ferro mentre l’Armata Rossa iniziava il ritiro da Budapest; a Lubiana si costituiva la Lega Socialdemocratica, prima organizzazione politica indipendente dalla Lega dei comunisti jugoslavi. Se ne accorse invece il presidente della Camera di Commercio, Giorgio Tombesi, chiedendosi polemicamente “a che servono i centri studi?”.
Eppure nel capoluogo giuliano si perdeva tempo nelle consuete lamentele contro lo strapotere dei friulani mentre tornavano di moda le preponderanti partecipazioni statali non solo alle industrie in eterno passivo, con la benedizione dei sindacati e degli industriali, ma anche a favore dei nuovi settori della ricerca e dell’innovazione tecnologica.
Le Elezioni europee, vissute nella blanda prospettiva di un’unione economica prevista per il 1993, consegnarono un’immagine politica cittadina che oggi sembra irriconoscibile: a Trieste la Dc aveva conseguito il 26 %, il Psi-Lista per Trieste il 22,4, il Pci il 18,7 e il Msi l’11,5 %. Nel 1989 la Lega Nord contava a Trieste soltanto otto iscritti.
In chiusura di campagna elettorale era giunto anche Giulio Andreotti e nel comizio di Trieste aveva cavalcato le svolte in atto nell’Europa orientale invitando le autorità jugoslave a rendere omaggio alle vittime delle foibe, esonerandosi poi di andare per primo a Basovizza. Proprio le svolte internazionali avevano riaperto il fronte polemico intorno alla legge di tutela della minoranza slovena e più in generale, di riflesso, sui nodi storici del confine orientale quali malga Porzus, rapporti tra Italiani e Sloveni, esodo, superamento del Trattato di Osimo proprio in forza della crisi jugoslava.
Una città assopita e isolata
E a Trieste, posta allora sul punto meridionale di una frontiera che divideva ideologicamente l’Europa, come si percepivano i cambiamenti? Nel remoto Adriatico nord-orientale pochi allora sembrarono cogliere che le cose stavano mutando in una Jugoslavia già in profondissima crisi economica, sull’orlo della bancarotta e costretta ed emettere banconote con cifre stratosferiche. In quei mesi, la presenza politica della Lista per Trieste sembrava allora ben lontana dall’esaurimento, come aveva sostenuto Manlio Cecovini in un’intervista a “Il Piccolo” dell’anno precedente: infatti rafforzato dagli accordi con il Psi, il movimento autonomista otteneva larghi consensi alle Elezioni europee di quell’anno, con oltre ventimila preferenze a Giulio Camber comunque non sufficienti per ottenere un seggio a Strasburgo, mentre il comunista Giorgio Rossetti, grazie ai resti e alle rinunce tornava a rappresentare la città in Europa. Tuttavia la città marcava un fortissimo ritardo nelle infrastrutture ed era del tutto assente una più stretta collaborazione con il Friuli e il Veneto e soprattutto con i potenti ministri veneti e friulani, espressi soprattutto da Dc e Psi, che guardano con crescente attenzione, a differenza dei triestini, l’Europa orientale.
Infatti nell’aprile ’89 il ministro degli esteri Gianni De Michelis aveva presentata a Padova la direttrice viaria Barcellona-Trieste in termini strategici di riequilibrio dell’asse franco-tedesco (neocarolingio, lo aveva definito) che doveva correre a settentrione delle Alpi: in quel contesto il Nord-Est avrebbe dovuto giocare un ruolo determinante contestualmente, secondo l’obiettivo di De Michelis, all’aperture di credito verso l’Europa centro-orientale da cui giungevano i primi segnali di mutamento.
Le prospettive del ministro furono accolte con qualche diffidenza locale tanto che il friulano Giorgio Santuz fu escluso dal VI governo Andreotti (23 luglio 1989), quello generato dal famoso “patto del camper” tra Craxi e Forlani, e il ministero dei trasporti finì al pugliese Vito Lattanzio, pure democristiano, più interessato alla ricostruzione dell’Armenia terremotata.
A Trieste si volava più bassi e il 28 luglio 1989 con un blando documento programmatico si affermava una nuova leadership democristiana (Calandruccio, Codarin, Luccarini, Marini) che rifletteva a livello locale l’alleanza Andreotti-Forlani-Gava e Comunione e Liberazione, mentre il Psi, sempre attento alle vicende democristiane, si era dimostrato pronto ad offrire una nuova intesa politica, pur sapendo che la Lista per Trieste era desiderosa di riconquistare spazi e ruolo della prima metà degli anni Ottanta.
A sinistra il Pci aveva avviato qualche cauto esperimento di apertura alla sinistra cattolica ma resistevano ancora eccessi di centralismo, determinismo ed egemonismo culturale che furono rotti improvvisamente con un’iniziativa unilaterale condotta dal segretario Domenico Costa e Stelio Spadaro con il senatore Spetic che nell’anniversario di Hiroshima visitarono i luoghi della memoria tragica del Novecento giuliano, partendo dall’isola di Arbe per approdare alla foiba di Basovizza: era il primo riconoscimento ufficiale di una delegazione comunista triestina ad uno dei simboli più controversi del dopoguerra e l’avvio di un lungo processo di riflessione storica e politica sul dopoguerra. Invece il Msi continuava a difendere le sue posizioni di rendita alzando il tiro sulla proposta di legge di tutela della minoranza slovena.
La Dc triestina di quegli anni, a differenza di quanto avvenuto in precedenza, non c’era stata una precisa elaborazione culturale ma solo preoccupazione di ordine tattico: il partito non poteva procrastinare le scelte in materia economica, doveva recuperare una gestione unitaria interna, tornare al centro del quadro politico ora occupato dal maggiore dinamismo del Psi che doveva pure misurarsi con le proprie impetuose correnti politiche: Gianfranco Carbone (martelliano), Augusto Seghene (sinistra), Guido Tersar (demichelisiano), Arnaldo Pittoni (martelliano) critico verso l’eccessiva esposizione con la Lista per Trieste – invece caldeggiata da Arduino Agnelli – e il sostegno all’on. Camber mai troppo amato a sinistra.
Il regionalismo veneto-friulano
Trieste era isolata anche nei rapporti con l’amministrazione regionale guidata con piglio deciso da Adriano Biasutti che fin dal 1984 aveva sfruttato la Comunità di lavoro Alpe-Adria per ritagliare al Friuli Venezia Giulia uno spazio di politica estera verso l’Europa danubiana, area in cui la diplomazia italiana difettava, con un’apertura al presidente croato Ante Marcovic il quale auspicava di trasformare la Comunità in una regione cantonale. Una proposizione “neomitteleuropea” che non piaceva invece al socialista Carbone. In tal senso Biasutti si allineava alla condotta politica dei presidenti di Stiria e Carinzia, Joseph Krainer e Leopold Wagner i quali da tempo dialogavano con l’allora presidente della repubblica socialista di Slovenia, Dušan Sinigoj. Però forti restavano le divergenze sul ruolo effettivo della Regione. A Roma non piacevano soprattutto le derive autonomiste di Trieste, più a parole che nei fatti, mentre da Udine Adriano Biasutti guardava ad un rapporto con l’imprenditoria veneta per il decollo definitivo dell’industria friulana, secondo un piano strategico era più complesso che doveva prevedere il governo diretto dell’economia, la costituzione di una banca regionale e il riordino strutturale. L’asse politico democristiano tra Adriano Biasutti e il presidente del Veneto Carlo Bernini era visto con qualche malumore dai socialisti che però avevano a cuore un altro obiettivo: ottenere la metà degli assessorati regionali pur contando solo il 17% dell’elettorato.
La motivazione era data dall’apertura del mercato del lavoro negli Stati dell’Europa orientale, opportunisticamente colta dall’imprenditoria veneta con una delocalizzazione industriale molto aggressiva e spregiudicata dietro la quale non era difficile individuare gli interessi commerciali tedesco-bavaresi. Ciò divenne motivo di scontro politico proprio in Veneto tra Bernini, sostenitore di questa linea e De Michelis assertore di una prelazione italiana accompagnata pure da un’azione politico-diplomatica, per la quale l’Italia, in tutti i due casi, però non era pronta. Da lì a breve seguirà la stagione della politica estera condotta dalle periferie, preludio di altre spinte centrifughe che non sarebbero tardate. Intanto a Trieste la classe politica locale si limitava a patrocinare il Sincrotrone e a chiedere un casinò e il rilancio del Porto vecchio. Argomenti eterni.