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A.Maria Mori e l’ansia di diventare madri (Voce del Popolo 27 ago)

Ci sono parecchi manuali sulla maternità, ma non troppi romanzi. Anche l’utima fatica letteraria di Anna Maria Mori, "Nove per due", uscita per la Marsilio, non è un romanzo puro, è un genere ibrido, è un racconto-saggio. Romanzo in quanto scritto in maniera completamente soggettiva ed emotivo-espressiva, saggio perché gli argomenti che l’autrice impugna a dimostrazione della sua tesi sono quelli “di autorità”, sono interventi multidisciplinari e citazioni documentate, frutto di indagini rigorose. Da una giornalista impegnata e abituata all’analisi sociologica, che ha al suo attivo libri come "Nel segno della madre", "Gli esclusi", "Il silenzio delle donne" e il caso Moro, tanto per citarne alcuni, non ci si poteva certamente aspettare la classica storia del felice evento e del sacro amore materno che risolvono ogni problema, bensì la voglia di spezzare un altro tabù grazie alla capacità di ritrovare i fili di un pensiero che in Italia è stato abbandonato negli anni fino a smarrirsi. Oggi, nel far west della sopravvivenza, nel degrado delle relazioni sociali, in un clima di precarietà e paure multiple, di mancanza di sostegni concreti e solidarietà collettiva, di indifferenza generalizzata, cosa significa scegliere di mettere al mondo un figlio? La maternità va intesa come fatto privato o come funzione sociale che dovrebbe attribuire sacralità alla madre? Perché in effetti lo status di madre prende consistenza nel momento in cui una ‘lei’ comincia a pensare se mettere o meno al mondo un figlio, se arrendersi al mistero della procreazione o rifiutare il primato della natura?

Nel libro questa "lei", la protagonista, si chiama Mariarosa. Il ginecologo le ha appena detto che è incinta. “Complimenti signora, lei aspetta un bambino…”. Lei è una trentenne come tante, un lavoro ottenuto a fatica, uno stipendio piccolo, rappresentante di una generazione caratterizzata dalla difficoltà di conciliare la voglia di avere un figlio con quella di iniziare o proseguire con successo la propria strada nel mondo del lavoro. Le frustrazioni che ne possono nascere sono innumerevoli. A cominciare dalla più ovvia, dal sentirsi dire: fa’ il bambino e rimani magra, giovane e sportiva. Per non parlare del rischio di depressione e di tutta una serie di disturbi psicosomatici derivati dal doppio stress, dai doppi ragionamenti, dai sentimenti doppi, dai sensi di colpa (indotti), sempre in bilico tra bambino, casa e lavoro, sempre di corsa, sempre con l’ansia e con la necessità che il faticoso puzzle quotidiano non si scomponga. In un dialogo serrato con la madre, alla quale la giovane Mariarosa ricorre per trovar conforto in un ampio canale di comunicazione affettiva, si ravvisano dapprima lo svuotamento del diritto a una maternità libera e consapevole e alla fine, tuttavia, il riscatto dallo smarrimento e il trionfo dell’amore fusionale con il “moscerino” che sta all’origine della nuova vita.

Ci vuole il coraggio della Mori per descrivere certi aspetti della maternità senza alcuna edulcorazione, senza storie all’acqua di rose con aggiunta di baby talk, e tuttavia farne un gesto altamente simbolico. L’autrice se la prende con la società, con il superlavoro delle mamme, con la retorica e i proclami di facciata, con il mondo degli affari, con il Ministero delle Dispari Opportunità, ma maggiormente con tutti gli uomini che rendono difficile alle madri realizzare un proprio riconoscimento contribuendo alla crescita demografica e umana del Paese. Le differenze rispetto all’Italia di quindici-venti anni fa sono minime. E la politica accompagna, in piena sintonia, questo guardare indietro.

Gli ostacoli da superare, nonostante gli sforzi e le battaglie fatte su questo fronte dalle donne, sono ancora molti. Il libro fa riflettere, e tanto, sulla voglia di far figli. È psicologicamente inquietante, palpitante ed istruttivo. Giovani donne, prima di lanciarvi nella corsa al bebé, leggetevelo. Almeno non potrete dire di non essere state avvisate.

Nelida Milani

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