a cura di Bruno Bontempo
È un matematico ma gli piace scrivere, vuole che restino “nero su bianco” le testimonianze di ciò che è stata la sua vita. E di cose da raccontare ne ha veramente tante, con qualche goccia di “mistero” per aver lavorato per il Governo americano, la NASA, satelliti, linguaggi cifrati… Da romanzo, insomma.
Sotto i baffi, Eligio Clapcich ride sornione, intervistato da Rosanna Turcinovich Giuricin. In effetti, a lasciarlo parlare a ruota libera si sofferma volentieri sul famoso collegio a Brindisi dove si sono formati i “Muli del Tommaseo”, ai quali è legato da un’amicizia senza spazio e senza tempo, con chi c’è ancora ma anche con chi se n’è andato lasciando tracce profonde del suo cammino perché “tuti ga fato strada”. Tanti i nomi da segnalare, uno in particolare, Alberto Monti di Santa Domenica di Albona, che in America si occupava di circuiti per la NASA.
Eppure eravate via dalle famiglie, lontani da casa, con alle spalle la guerra e l’esodo. Era un motivo per scegliere lo studio come unica via di scampo?
“Non lo so. Certo eravamo molto disciplinati anche se vivaci, convinti di dover conquistare la vita ad ogni costo. La nostra amicizia è stata un supporto insostituibile e il nostro raduno annuale un impegno da non mancare mai”.
Quando lasciò Fiume?
“È stato nel 1946 che sono diventato esule. A Brindisi ho frequentato le scuole e nel 1955 mio padre, che era già negli Stati Uniti, mi ha fatto il cosiddetto richiamo per cui sono potuto partire. Ma a Trieste avevo lasciato la mia ragazza, Savina Guerrieri Ferfoglia, che era ancora tanto giovane e così attesi due anni ma nel ’57 sono tornato per sposarla e portarla con me Oltreoceano. Poi sono nati due figli maschi, Roberto che fa il dentista e Antonio che è pediatra”.
Che cosa conoscono delle loro radici?
“Il loro mondo oggi è la famiglia ed il lavoro, hanno entrambi moglie e figli e sono molto impegnati ma è proprio per questo che mi sono messo a scrivere, per lasciare qualcosa che avranno modo di studiarsi un giorno quando il bisogno di riandare alle origini sarà più forte. Siamo tornati a Fiume insieme quando avevano poco più di dieci anni. Hanno visto la mia emozione, hanno conosciuto la città come mezzo di paragone per le mie descrizioni ed i miei racconti. Con una madre triestina è chiaro che con la città giuliana hanno tessuto un altro tipo di rapporto”.
Come mai ha scelto la matematica come oggetto del suo studio?
“Provengo da una famiglia di ingegneri. Fiume era una città che sapeva ispirare in questo senso per la sua storia tecnologica e scientifica non da poco. Ho cugini che hanno percorso una strada molto simile alla mia in Italia e in altri Paesi europei. I miei figli invece hanno preferito la medicina, interrompendo così una tradizione ma solo in parte visto che comunque si dedicano alla scienza”.
Avendo lavorato in ambienti governativi, come è stato spiegare la sua provenienza?
“Complicato ma non impossibile, soprattutto per noi che abbiamo affrontato un doppio esodo interrogandoci spesso sulla nostra provenienza e che, come nel mio caso, per ragioni di lavoro ho avuto contatti con tutti i Paesi del mondo. Seguivo più di 200 ingegneri sparsi nei vari continenti. Da un inizio come manager sono passato alle basi militari. Ero al Pentagono all’epoca della guerra fredda con compiti di applicazioni della criptografia. Poi sono passato alla NASA in Florida dove mi sono occupato di fibre ottiche, satelliti, protocolli digitali. Ho svolto conferenze in tante università. L’ultima, con la quale ho chiuso la mia attività lavorativa, in quella di Cambridge in Gran Bretagna”.
I suoi figli sono nati a New York ma ora lei si è trasferito nel New Jersey. Come mai?
“La City vive un continuo ricambio demografico dovuto a questioni di lavoro, come nel mio caso, ma anche di stabilizzazione linguistica e sociale. L’emigrazione non è così massiccia come una volta quando si aveva bisogno di appoggiarsi ad una comunità per la casa, il lavoro, i rapporti sociali. Una volta che si impara la lingua, queste premesse vengono meno e allora una persona può scegliere di abbandonare la comunità per inserirsi in altre realtà. È quanto sta succedendo”.
Quale realtà vivono i giuliani in questa dimensione?
“La nostra comunità non si è creata come altrove per la presenza massiccia di corregionali. Negli USA negli anni ‘50, quelli delle grandi emigrazioni dai nostri territori verso gli altri continenti, l’IRO favoriva scelte come il Canada o l’Australia ma per entrare negli USA ci voleva il richiamo. Ecco perché noi siamo arrivati alla spicciolata, con motivazioni familiari, per cui la nostra presenza è frammentaria. Più semplice quindi mantenere dei contatti diretti tra noi e l’Associazione Giuliani nel Mondo di cui ci sentiamo dei satelliti per tutte le attività che vengono fatte in loco”.
Recentemente è stata organizzata la mostra sull’emigrazione giuliana. Quali le reazioni in loco?
“Più che positive. In particolare della direttrice del Museo che l’ha ospitata, Carla Mastropiero, la quale ha capito la nostra vicenda ed ora ci coinvolge nelle sue iniziative con nostra estrema gratitudine. Siccome insegna all’Università ai suoi studenti parla di noi, della nostra storia. Dopo l’istituzione del Giorno del Ricordo abbiamo avvertito una certa curiosità nei confronti della nostra realtà.
Ad attivarsi sono stati i consolati ed i centri culturali con i quali è stato possibile instaurare una bella collaborazione che tocca punte di vera amicizia. Questo ci rende fieri e pronti ad evolvere questo rapporto. Nel New Jersey esiste un Circolo guidato da Jolanda Maurin ma non c’è una sede e le iniziative sono sporadiche, per cui ecco che ognuno di noi cerca di attivarsi per suscitare momenti di incontro e conoscenza, come nel caso della mostra. Per fortuna con internet ci teniamo in contatto anche a distanza.
Io sento spesso il mio amico Dino Veggian di Pola, che ha seguito la carriera giornalistica nel quotidiano ‘America Oggi’ (America Today), ma dopo che è andato in pensione si è trasferito nella Carolina del Nord. Da lì, grazie a internet è in grado di gestire e realizzare il nostro giornalino ‘Il Faro’, un trimestrale che ci tiene uniti insieme ad occasioni come matrimoni e battesimi”.
Con quali prospettive?
“La situazione è delicata, siamo in pochi e sparsi ma, fatti due conti, non dobbiamo disperare, c’è una logica nelle cose che a volte è in grado di sorprenderci. Chi l’avrebbe immaginato che io giovane fi umano esule avrei conseguito due lauree in America”.
Torna spesso a Trieste?
“Diverse volte l’anno perché abbiamo una casetta di famiglia in Scala Santa da seguire. E poi mia moglie sente in modo forte il richiamo di Trieste”.
Quando è tornato a Fiume, nel ’77, che cosa ha detto ai suoi figli degli italiani che aveva incontrato?
“Che se erano rimasti avevano le loro buone ragioni che vanno considerate”.