Alla commemorazione delle vittime delle bombe piovute su Pola ottant’anni or sono, abbiamo avuto la fortuna di incontrare Mario Lonzar, già presidente della Comunità degli Italiani e per lunghissimi anni dirigente della scuola elementare italiana di Pola. La fortuna, in detto caso, è coincidenza e rapporto di equivalenza che esiste tra memoria individuale, di famiglia e memoria collettiva cittadina e delle tante, piccole storie che la compongono conferendo continuità, identità ad una comunità umana con le sue peculiarità e valori. Non fissare ed eliminare i ricordi brutti dallo scompartimento della memoria nel caso nostro non giova, sarebbe irriverente nei confronti dei nostri concittadini deceduti da innocenti. D’altra parte, sfruttare la memoria preziosa di chi ha provato le conseguenze rovinose della guerra sulla propria pelle, rappresenta un’operazione importante, attiva e ricostruttiva, al fine di non archiviare i fatti subiti da Pola, ma di fornirne un’interpretazione di senso per cercare di integrare meglio e correttamente la nostra storia, la storia polesana. Mario Lonzar del bombardamento del 9 gennaio 1944 non può ricordare assolutamente nulla. Aveva non più di 3 giorni di vita e alla morte era scampato per miracolo. Ma la tragedia divenne racconto di famiglia in maniera indelebile.
“Abitavamo – dice – al civico 2 di Largo Oberdan, proprio quello centrato in pieno dalle bombe, che rasero al suolo anche la vicina Telve, centrale della società telefonica. La nostra palazzina si trovava praticamente ai Giardini, a non più di qualche centinaio di metri dalla Riva in linea d’aria, e questa posizione, vicina all’industria navale e alle strutture militari ci fu fatale. La mia famiglia conservò al dettaglio il ricordo di quanto accaduto. L’allarme sentito quella domenica mattina fu uno dei tanti già uditi in precedenza. Invece di correre nel rifugio sotto il Circolo restammo a casa. Mamma, avendo qui partorito tre giorni prima era ancora convalescente, e non avrebbe potuto muoversi manco a volerlo. Eravamo tutti radunati in un’unica stanza da letto per farci coraggio a vicenda. Dopo due incursioni aeree, verso mezzogiorno, nonno disse che probabilmente non ci sarebbe stato più pericolo e che ‘i aerei ga pasà l’Arsenal e i va via’. Erano state le ultime parole fatidiche, prima della terza ondata che con gli ordigni esplosivi ridusse a macerie l’intero edificio seppellendo tutti gli effetti personali, i pochi averi e le preziosità nonché i ricordi di famiglia”.
“Ma la bruttura più immane – continua l’ex direttore della Giuseppina Martinuzzi – fu la perdita di mia zia Carmen Caresi, sorella di mia madre, di 22 anni, morta con la figlioletta Annamaria, di soli 4 mesi in braccio. L’altra mia zia più giovane, ancora bambina, riuscì a liberarsi dai detriti e sbucare in chissà qual modo dalle macerie per gridare aiuto in direzione delle squadre di soccorso. Nove ore dopo furono recuperati vivi mio nonno con le vertebre fratturate, mia nonna con ferite gravi alle gambe, il marito della giovane zia perita in bruttissime condizioni e mia madre. Nel mio caso sono stato salvato, pare incolume, da un soldato tedesco che, misericordioso, dopo avermi avvolto dalla sua divisa mi portò al rifugio dell’Ospedale Santorio Santorio. In un primo momento nessuno aveva saputo chi fossi. Per la nostra famiglia seguirono tristi giorni di sistemazione in un ‘lisiera’ a Castagner, poi da sfollati a Muggia, da dove era originaria la parte materna della mia famiglia…”. [af]
Fonte: La Voce del Popolo – 10/01/2024