LETTERE
Apprendiamo da «Il Piccolo» del I dicembre che il ministro per gli sloveni all'estero, in un colloquio col magnifico rettore dell'Università di Trieste, prof. Peroni, gli ha chiesto che la comunità slovena possa riavere «il Balkan». Questo palazzo di via Filzi è proprietà dell'Università, che vi ha eseguito un lungo restauro, e vi ha sede la Scuola superiore di lingue moderne per traduttori ed interpreti. Esso è andato in fiamme il 13 luglio 1920. Si stava allora discutendo il confine fra il Regno d'Italia e quello dei Serbi, Croati e Sloveni, definito a Rapallo il 12 novembre 1920, ed erano vivaci in città i contrasti fra filo-italiani e filo-slavi. L'edificio era sede dell'Hotel Balkan e di importanti associazioni jugoslaviste slovene. Quando arrivò a Trieste la notizia che a Spalato l'11 luglio erano stati uccisi il comandante Gulli ed il marinaio Rossi della regia nave Puglia, ormeggiata in quel porto dalmata a seguito della vittoria del 1918, una folla ostile si radunò prima in piazza Unità, dove rimase ucciso un dimostrante, poi in via Mazzini 9 davanti all'edificio della delegazione jugoslava e quindi intorno al Balkan, protetto da un reparto armato dell'esercito. Dalle finestre o dal tetto sarebbero partiti degli spari e sarebbero state lanciate bombe a mano. Di certo rimase ucciso il tenente Casciana, comandante del reparto. Allora scoppiò l'incendio e morirono due ospiti dell'albergo lanciatisi dalla finestra della loro stanza. Secondo la versione avallata dal giornale sloveno «Edinost», il Balkan fu «bruciato dai fascisti» che vi erano penetrati. Si sarebbe trattato di un'azione largamente «ante marcia», ricordando che la marcia su Roma avvenne il 28 ottobre 1922. Notoriamente l'Italia in sostituzione del Balkan, di cui acquistò le rovine, diede alla minoranza slovena, in base al Memorandum d'Intesa di Londra e all'annesso Statuto speciale, il palazzo di via Petronio, dove venne costruito il teatro sloveno con l'avveniristico palcoscenico girevole, ed altri immobili. Con ciò il debito, se esisteva, dovrebbe essere stato saldato. Questo per la storia.
Ma per i numerosi esuli adriatici superstiti a Trieste e i loro eredi sentir parlare di restituzione di immobili fa ricordare altre restituzioni, queste veramente mancate: quelle dei loro beni espropriati da Lubiana e Zagabria «al tempo del comunismo jugoslavo». La Slovenia e la Croazia hanno emesso dopo la loro indipendenza del 1991 le leggi di restituzione ai loro cittadini espropriati dei loro beni, salvo escluderne gli stranieri. Ma hanno mantenuto poi tale discriminazione anche di fronte agli ispettori inviati dall'Ue a verificare la loro maturità europea, cioè la corrispondenza delle loro leggi con i fondamenti dell'Europa dei popoli, uno dei quali è la non discriminabilità dei cittadini per cittadinanza o nazionalità. Per usare termini biblici: il ministro sloveno, prima di chiedere agli italiani di Trieste di togliersi dall'occhio la pagliuzza, dovrebbe togliersi la trave dal suo. Se la situazione dei beni espropriati col Trattato di pace è stata ingarbugliata dagli intrallazzi Tito – De Gasperi, violando il Trattato di pace, quella della parte ora slovena della Zona B, dove ha sede la maggioranza dei nostri beni, è chiarissima. L'Italia, disposta a svendere tali beni a 0,21 dollari (al valore 1990) per metro quadrato (edifici valutati in pianta), ha ricevuto 0,032 $/mq, ovvero 2 delle 13 rate previste, avendo l'autodisintegrazione della Rsfj sospeso il pagamento. Il "tesoro di nessuno" della Dresdner Bank del Lussemburgo è ancora lì. Forse nel 2009 a qualche «restituzione» hanno maggior diritto detti esuli che la comunità slovena a Trieste. La proprietà è un diritto umano inalienabile per gli Stati che entrano nell'Ue.
Italo Gabrielli