Il vocabolario Zingarelli definisce l’ottimismo come l’“attitudine a giudicare favorevolmente lo stato e il divenire della realtà”. Io desidero parlarvi invece di “ottimismo attivo”, cioè di un’accezione sensibilmente diversa: “modo di pensare e di agire tendente esclusivamente al miglioramento”, con particolare riferimento alla situazione di noi esuli e delle nostre Terre.
Infatti, sarebbe assurdo “giudicare favorevolmente” la situazione di oggi e quella che potremmo vedere domani, in vancanza di cambiamenti decisivi. Su alcuni di questi cambiamenti potremo e dovremo agire noi stessi, con il nostro “ottimismo attivo”. La politica nazionale ci mostra la lotta che avviene tra chi cerca di decidere, affermare, fare e chi, dalla parte opposta, travisa, confonde e cerca di distruggere; ci mostra la parte che ritiene di operare positivamente, ma spesso non comunica il suo intento e le sue azioni in modo recepibile dal popolo (e butta al vento le opportunità di avere nuovo consenso) e la parte opposta, che persegue l’esatto contrario, però è perfettamente capace di comunicarlo al popolo e di farlo passare come conquista di libertà e di alti ideali. Qui la nostra azione di comuni cittadini “ottimisti attivi” ci farà scegliere ogni volta come albero buono quello che ha portato frutti buoni, secondo un antico precetto. Nel frattempo dovremo anche controbattere le idee e i dati che riteniamo ingannevoli e questo sarà un compito difficile. Vi sono alcuni politici italiani che si ricordano di noi esuli. È fin troppo facile da parte nostra assumere il comportamento rinunciatario: «Vergognatevi di averci illusi per 62 anni. Non esistete più».
È un comportamento serio, ma che non porta da nessuna parte. Dato che la nostra civiltà ci ha sempre tenuti lontani dalla violenza di piazza, l’unica strada da percorrere, sulla quale una parte degli esuli si è nuovamente incamminata, è quella del dialogo, ma ottimistico; cioè di un dialogo concreto e ragionevole, ma che salga di tono gradualmente sempre più, fino ad ottenere risultati concreti e che, lungo il percorso, esponga alla pubblica indignazione e al fallimento politico gli interlocutori inadeguati. In particolare, se un trattato come quello di Roma del 1983, dopo quello di Osimo del 1975, è stato oggettivamente disatteso dalle repubbliche eredi della Jugoslavia, fino a poter essere considerato decaduto in base alla Convenzione di Vienna del 1969, ebbene si dichiari alle controparti diplomatiche che siamo pronti a farlo decadere e, forti del nostro diritto, si negozino nuove regole eque ed applicabili al mondo di oggi. La diplomazia italiana fin dagli albori del ’900 è stata impreparata a gestire le questioni dei nostri confini orientali? Ottimisticamente, essa è ancora oggi in tempo ed ha i numeri per darsi una preparazione valida e per esprimere negoziatori di livello adeguato a trattare argomenti tanto gravi. Essa non potrà riparare i torti subiti da chi non c’è più, ma potrà darci la certezza che la giustizia delle genti esiste ancora. Che cosa aspetta? Il più importante sforzo di ottimismo attivo va fatto da tutti noi esuli per ricomporre le file e agire uniti nei confronti di tutti i nostri interlocutori.
Dobbiamo credere fermamente che ciò sarà possibile, a cominciare dall’associazione di esuli più diffusa sul territorio nazionale, nella quale la decisione di tirare dritto ad ogni costo (decisione che parecchi di noi hanno sperimentato amaramente) verrà superata grazie alla saggezza e forza d’animo di alcuni dirigenti e forse anche grazie a conteggi drammatici: se viene sfiduciato un comitato dopo l’altro, cosa rimane? Ma non bisogna fare sconti a nessuno: tutti noi esuli dobbiamo, a mio modo di vedere, darci l’obiettivo di colloquiare in modo costruttivo, ottimistico appunto. Vanno eliminate le offese, le critiche sterili, le accuse di “tradimento” ad ogni piè sospinto. Inoltre va eliminato il silenzio: vanno date risposte, a tempo e luogo. Ed ancora: penso che tra di noi non abbiamo bisogno di estremisti; si allontanino pure e nessuno li rimpiangerà. dedichi a quello che gli è più congeniale, dando mandato e fiducia ad altre persone per gli altri suoi impegni. A questo proposito osservo che il migliore segno di ottimismo attivo è quello di ampliare le nostre file con i “giovani”: ventenni, trentenni, quarantenni, cinquantenni, che possano dare continuità alla nostra comunità nel futuro. Occorre trasmettere loro le cognizioni storiche sulle vicende delle nostre terre, per sostituire con dati di fatto le fuorvianti nozioni che possono avere appreso a scuola e da una cultura generale molto diffusa, contraria ai nostri sentimenti. Non occorre insegnare loro la passione, perché sorge spontanea.
Tornando alla coesione di intenti tra le associazioni, osservo che nel Libero Comune di Pola in Esilio nessuna occasione viene tralasciata per offrire alle altre organizzazioni possibilità di sereno dialogo, sia per le questioni immediate, sia in vista dell’obiettivo di unificare intenti e metodi. L’ottimismo per quanto riguarda persone e situazioni d’oltre confine tocca argomenti della massima delicatezza. Per le autorità in generale, teniamo presente che sono gravate da oltre 50 anni di comunismo; mezzo secolo di impostazione ideologica, di costrizione morale e fisica non si dimentica facilmente; a ciò si aggiunge un nazionalismo esasperato, che è fisiologico in stati di nascita recente e trae alimento anche da lontane impostazioni culturali. Dobbiamo quindi augurarci che le nuove leve dirigenti progressivamente si distacchino dai vecchi schemi, in un’ottica di libertà e di spirito europeo sincero. E le vecchie leve?
Auguriamoci che vengano illuminate, oppure sconfitte … ma che in ogni modo non si esibiscano più in falsificazioni della storia, umilianti per loro stesse e offensive per noi; auguriamoci anche che la nostra diplomazia, come già detto sopra, cambi comportamento: la giustizia, per quanto sia difficile da ottenere, alla fine è una sola. Non esistono due giustizie. Fra i cittadini d’oltre confine mi riferisco in particolare a quanti si dichiarano di nazionalità italiana. Molti esuli sono consci che, fra i “rimasti”, tanti non partirono perché trattenuti da tarda età, malattie, disperazione, mancata possibilità di optare o mancata autorizzazione a partire, mentre altri non partirono per questioni ideologiche o perché coinvolti nelle stragi delle foibe ed in vessazioni verso i partenti. Inoltre, molti esuli ritengono che figli e nipoti dei “rimasti”, per questioni ideologiche o peggio, non debbano venire criminalizzati, facendo ricadere sulla loro testa le decisioni o le colpe dei loro antenati. Attenzione, però: molti altri esuli non hanno queste percezioni e la pensano diversamente. È per questa serie di problemi, qui appena accennati, che la nostra associazione ha da tempo messo in atto la politica non degli abbracci e delle grandi dichiarazioni, bensì dei “piccoli passi” e continua a perseguirla, mantenendo vivo il dialogo con le persone di buona volontà d’oltre confine. Con l’ottimismo che ci guida, dobbiamo, a mio modo di vedere, ampliare con cautela questo nostro comportamento, per un futuro migliore e più libero delle nostre Terre.
Tramandare la nostra cultura: è un altro campo in cui occorre molto ottimismo attivo. L’ignoranza profonda delle nostre vicende va al di là dell’immaginabile, appena ci si allontani da Trieste. Troverete italiani che neppure afferrano la parola “Istria”; che se hanno sentito parlare di foibe le confondono con le doline; che se credono di sapere qualcosa di noi ci chiedono se non sarebbe ora di finirla, di parlare di cose così antiche … È quindi necessario, ed il mio è un pressante invito, non una semplice osservazione, che tutti coloro che sono in grado di parlare delle nostre vicende in modo completo e coerente si facciano avanti, per estendere a molte scuole le lezioni che oggi si tengono per opera di sparuti gruppi di esuli. Oggi è necessario darsi una nuova priorità: partecipare attivamente al nuovo Gruppo di Lavoro appena istituito dal Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca “per la conoscenza della storia degli esuli dell’Istria, di Fiume, della Dalmazia” (grazie anche a te, caro Luciano Cremonesi!). E poi è necessario scrivere, scrivere le nostre storie e le nostre cronache, in modo chiaro e semplice, poi farle rivedere a persone fidate ed esperte e poi farle pubblicare.
Guardando al futuro, con ottimismo.
Tito Lucilio Sidari