Le tradizioni della Pasqua istriana: le pinze e le titole

Il “rito” iniziava il martedì santo.

Nonna Anna abbandonava ogni sua occupazione – e ne aveva tante – per dedicarsi alle pinze.

Delle pulizie pasquali si occupavano altre due signore che conoscevano bene la casa e, soprattutto, la maniacale pulizia di nonna: tutto doveva brillare, essere lavato e in ordine per la Festa, per Cristo Risorto.

Nonna era generosa con tutte le persone che l’aiutavano in molte faccende. Tener pulito il grande cortile, per la “lissia”, per l’ordine e le pulizie della casa, ma era intransigente, intransigente con se stessa e con gli altri, ricambiando l’attenzione e la precisione nei lavori casalinghi di chi aiutava con molta generosità.

Ma per le pinze, nessun aiuto.

Incominciava mettendo rigorosamente in fila tutti gli ingredienti necessari alla preparazione, meticolosamente. Li metteva su un tavolino vicino al tavolo grande perché non intralciassero il suo lavoro che procedeva spedito, con la solita maestria che nonna Anna metteva in ogni suo lavoro: maestria che scaturiva dall’amore e attenzione che metteva nel fare ogni cosa.

E incominciava…

Setacciando la farina… Tanta…- le pinze non erano destinate solo alla famiglia, ma anche ad alcune famiglie bisognose – e subito dopo seguiva la preparazione della lievitazione.

Nonna mi permetteva di stare vicino a lei e la guardavo incantata dai suoi movimenti rapidi attenti.

Acqua tiepida, il lievito sminuzzato, da sciogliere, lo zucchero, la farina e il panetto messo in una terrina, al caldo.

Aspettando che il panetto raddoppiasse, nonna, che ricordo sempre in movimento, in questa occasione, aspettava tranquilla.

Era la settimana Santa e nonna, invece di correre controllare lavorare, come sempre, pregava con grande intensità spronando a farlo con lei anche me che, invece, ero impaziente di vedere come sarebbe proseguito il suo magico lavoro.

E finalmente il panetto era il doppio e nonna Anna, facendosi il segno della croce incominciava ad impastare alternando gli ingredienti: farina burro sciolto uova zucchero.

E impastava impastava fino alla fine degli ingredienti per poi mettere l’Impasto in una grande “ piadina “ coperto da un canovaccio infarinato e messo al caldo.

E ricominciava la mia impaziente attesa che io ingannavo distraendo la nonna dalla preghiera chiacchierando e facendole tante domande.

E di nuovo, magicamente, l’impasto raddoppiato veniva messo in una fossetta di farina e di nuovo lavorato con uova burro zucchero… lavorando il tutto vigorosamente, assestando pugni, e con tanta forza.

Io la guardavo non capendo tanta violenza.

Alla fine mi stancavo perché l’operazione pugni durava più di un’ora che, per me bambina di cinque sei anni era un’eternità.

Aspettavo di vedere come nonna Anna “creava” le adorate titole ma il momento tanto atteso non arrivava mai.

Nonna capiva la mia impazienza e mi esortava ad andare a giocare con i miei piccoli amici che, però, aspettavano impazienti anch’essi, di veder nascere le titole.

Giocavamo un po’ svogliatamente, in trepidante attesa di sentirci chiamare per assistere alla preparazione tanto desiderata.

Che non arrivava mai: era necessaria un’ulteriore lievitazione e finalmente l’interminabile attesa – ore e ore – finiva con un richiamo “Anna Maria, picia … cori che deso fasso le titole!” e correvo correvo… in tempo per vedere nonna Anna intenta a incidere con tre profondi tagli a forma di stella ogni panetto, oramai pronto per essere messo nel grande forno nel cortile.

Fra una lievitazione e l’altra la nonna aveva acceso il fuoco.

Finito il rito delle pinze iniziava quello delle titole… l’uovo colorato di rosso racchiuso da una griglia sottile di pasta e, immediatamente dopo, la lunga treccia.

Altra lievitazione, ma a quella non assistevo.

Oramai sapevo che quelle semplici dolci trecce erano pronte per essere arrostite…ma “col fogo baso”, raccomandava a se stessa la nonna.

Un dramma se si fossero abbrustolite troppo!

Le pinze e le titole dovevano essere dorate luccicanti e morbide e dolci…

Oramai erano pronte per essere benedette alla prima Messa Pasquale alla quale nonna assisteva portandone qualcuna.

La benedizione era fondamentale e tutti, proprio tutti, grandi e pici della famiglia dovevano mangiarne un pezzetto.

Dopo la Messa nonna ricominciava con i preparativi del pranzo pasquale.

Anche quello sempre uguale di anno in anno.

El persuto per antipasto, le fave col pecorin, i “fusaroi” – oggi fusi – fatti da nonna e rigorosamente conditi con il sugo di gallina, l’agnello in forno con le patate arroste e i piselli che io, pazientemente, avevo aiutato a sbucciare assieme alle fave.

Queste richiedevano molta pazienza, molta di più dei piselli.

Altro rito oramai quasi dimenticato.

E alla fine del pasto le pinze.

Ecco, la dolcezza e la morbidezza di quei semplici dolci pasquali le sento ancora.

Il profumo che si spandeva attorno al forno lo sento ancora.

Nonna Anna intenta a quel lungo eterno lavoro la rivedo ancora.

Quella tavola imbandita con tanta attenzione, come sempre per le grandi occasioni, la rivedo ancora, rallegrata dalle ginestre che in quel periodo ricoprivano le colline attorno a Orsera rendendo il paesaggio splendente del loro giallo.

E risento ancora il loro intenso profumo.

E mi rivedo scalmanata correre sulla collina di Brustolade in gare felici tra noi bambini.

Non ci rendevamo conto di tanta bellezza, non assaporavamo quei profumi

Inebriati, non sapevamo che molto presto tanta bellezza non l’avremmo più goduta.

Son passati tanti tanti anni e ogni sensazione è ancora viva in me.

Ma la pinza la compro alla Bomboniera quando vado a Trieste.

E non è la stessa di allora, di quella impastata dalle energiche mani di nonna Anna, non ha lo stesso sapore e non mi sembra neppure così bella.

A Pasqua mangiamo la colomba, squisita dolce ma non come quella titola e quella pinza di nonna Anna, resa indimenticabile e insuperabile dalla nostalgia di quei miei brevi anni trascorsi nella mia Orsera.

Auguri.

I più cari e affettuosi per una serena Santa Pasqua felice almeno come le mie poche vissute da “picia”.

Anna Maria Crasti

 

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