Negli ultimi anni l’attenzione della ricerca storica relativa all’esodo ha iniziato ad indagare un aspetto meno dibattuto, e cioè l’accoglimento, la sistemazione e la successiva integrazione, nelle diverse regioni italiane, delle famiglie e/o dei singoli della diaspora giuliano-dalmata. Questo interesse si riscontra a livello di ricostruzione storiografica nonché di raccolta di testimonianze, che coinvolge sia gli istituti di ricerca sia le università; infatti, tali aspetti non di rado sono prescelti come argomenti per le tesi di laurea. Ne sono state discusse alcune incentrate sui borghi e sulle case edificati appositamente per accogliere l’alto numero di esuli, per esempio. Un’altra sezione d’indagine è quella dei campi profughi, ossia delle prime strutture in cui affluirono gli esuli medesimi prima dell’ottenimento di un alloggio vero e proprio e nei quali molti vissero per lunghi anni. Questo aspetto venne affrontato alcuni anni or sono dal Gruppo Giovani dell’Unione degli Istriani e dall’IRCI di Trieste con una mostra allestita a Padriciano e un catalogo in cui si offrì un quadro d’insieme che rappresenta un punto di partenza imprescindibile.
Altri studiosi – anche privi di alcun legame con la sponda opposta dell’Adriatico – si sono cimentati in lavori simili. Tra questi rammentiamo i due volumi di Enrico Miletto, “Con il mare negli occhi. Storia, luoghi e memorie dell’esodo” (2005) e “Istria allo specchio. Storia e voci di una terra di confine” (2007), entrambi editi dalla casa editrice Franco Angeli di Milano. Accanto alla presentazione dell’arrivo dei profughi e dell’inserimento nel tessuto sociale delle varie realtà regionali italiane, ricordiamo anche i contributi che illustrano le vicende delle comunità dell’Adriatico orientale nei territori extraeuropei, le più note sono, indubbiamente, quelle relative all’Australia, al Canada e agli Stati Uniti. Negli ultimi anni anche all’Ateneo di Lubiana sono state discusse delle tesi sull’arrivo degli esuli nella provincia di Trieste, mentre alcuni ricercatori studiano le caratteristiche sociali e/o familiari di coloro che lasciarono le proprie terre. Quindi possiamo affermare, senza timore di smentite, che i percorsi che portarono centinaia di migliaia di persone dall’abbandono dei siti originari sino all’approdo in nuovi contesti, siano entrati a pieno titolo nei filoni della ricerca, e una certa attenzione è riservata pure alle strutture preposte all’assistenza degli esuli nonché alle loro organizzazioni.
La genesi
Guido Rumici nella sua attività pubblicistica tesa a studiare e a divulgare le vicende meno note della storia recente dell’Adriatico orientale, ha dato alle stampe due brevi lavori concernenti la presenza di comunità istriane in due località del Friuli Venezia Giulia, stabilitesi in concomitanza con le ondate dell’esodo. Si tratta di “Esuli a Grado” (Edizione A.N.V.G.D. Gorizia-Istituto di Cultura Veneta, 2008) e “Esuli a Fossalon” (Edizione A.N.V.G.D. Gorizia-Comune di Grado, 2008). L’autore riporta all’attenzione del pubblico la genesi delle collettività giuliane nelle due località surricordate e lo fa attraverso la ricostruzione storica dei fatti nonché mediante le interviste. La storia orale – genere caro a Rumici – gli permette, attraverso centinaia di colloqui con gli interessati, di raccogliere informazioni che successivamente raffronta con le fonti a disposizione, mentre in altri casi, quando la documentazione è povera o inesistente, essa si presenta come un prezioso supporto che giova alla comprensione di determinati aspetti. Nonostante i vari contributi esistenti, vi è ancora molto lavoro da svolgere e si è ancora lontani da un’opera che interessi l’intero territorio italiano, al contempo però l’analisi delle situazioni circoscritte a livello locale permette di cogliere i problemi, le caratteristiche o le analogie ed è indubbiamente indispensabile in previsione di un venturo lavoro di sintesi.
I due fascicoli si aprono con un testo introduttivo comune dedicato all’esodo, quindi alle partenze e agli arrivi dei nostri conterranei nei nuovi contesti. “Lo sconvolgimento totale del tessuto sociale, degli usi, delle consuetudini e dei valori consolidati, le vessazioni verso la religione e l’introduzione di disposizioni amministrative spesso non comprese o condivise da molti, contribuirono a creare un senso di completa estraneità verso la nuova e complessa realtà che si stava delineando. L’introduzione della lingua slovena o croata nella vita di tutti i giorni rappresentò poi, per l’elemento italiano della regione, una difficoltà aggiuntiva con cui doversi misurare. Numerosi furono anche i motivi di ordine economico che influenzarono la decisione di partire: i licenziamenti, i sequestri e le confische dei beni personali ed aziendali, il cooperativismo obbligatorio e la politica degli ammassi contribuirono a far crollare la base economica di molte persone privandole del necessario sostentamento”.
Tra le concause, Rumici ricorda anche il cosiddetto lavoro volontario, l’uso strumentale della giustizia mediante i tribunali del popolo nonché l’operato dell’apparato repressivo poliziesco. Lo stillicidio delle partenze determinò un cambiamento totale della fisionomia etnica, linguistica, culturale e sociale del territorio. “La partenza di una così grande massa di persone trasformò radicalmente l’immagine e l’essenza di una regione ed in pochi anni le principali città della costa istriana e delle isole del Quarnero si svuotarono dell’elemento italiano, che all’epoca era percentualmente maggioritario”. L’autore evidenzia ancora che “nell’interno dell’Istria, invece, la situazione fu in parte diversa sia per la presenza dell’elemento slavo, concentrato nelle campagne, sia per altri fattori che rallentarono l’esodo degli abitanti, tra cui le difficoltà logistiche non indifferenti che ostacolarono i movimenti”.
Secondo Rumici medesimo, si può parlare di una sorta di “geografia dell’esodo” determinata dalla posizione specifica delle località nonché dalle infrastrutture presenti, ossia dai mezzi di trasporto. Pertanto fu relativamente più facile abbandonare i territori costieri ed insulari a bordo delle imbarcazioni, che giornalmente partivano in direzione dell’Italia; il mare, inoltre, a differenza delle vie terrestri, era ancora quel vettore che metteva in relazione i lidi opposti, mentre le strade, ed i relativi controlli e/o blocchi dei passaggi, spesso e volentieri impedivano i movimenti, in questo caso a senso unico. “Ciò rappresentò un deterrente iniziale per parecchie persone, ma non impedì comunque che in seguito si svuotassero i centri maggiori dell’interno dell’Istria, come Montona, Portole, Pinguente e Pisino”.
Una volta lasciata la terra natia i profughi furono accolti dagli uffici provinciali del Ministero all’Assistenza Postbellica e dagli Enti Comunali di Assistenza furono allestiti anche i Centri di Raccolta Profughi (C.R.P.); in tutta la penisola si contavano più di 140 strutture.
Il caso di Grado
Passando al caso specifico di Grado, il ricercatore rammenta che i primi arrivi si registrarono già nel biennio 1943-44; nella laguna arrivarono dapprima gli sfollati di Zara, città pesantemente colpita dai bombardamenti alleati, successivamente vi furono altri approdi; il grosso, però, giunse all’indomani del Trattato di pace. Tra il 1947 ed il 1949 la maggior parte delle persone erano originarie da Pola, da Fiume e dalle altre cittadine dell’Istria meridionale ed occidentale, ossia dai territori ceduti alla Jugoslavia. Tra le comunità più numerose ricordiamo quella di Rovigno (con oltre duecento persone), di Parenzo, di Orsera, di Fasana e di Albona.
Grado fu scelta come meta in quanto geograficamente è molto vicina all’Istria, ma anche perché quel territorio presentava non poche caratteristiche comuni con le genti dei lidi dirimpettai. Le due comunità “(…) avevano sempre condiviso nei secoli passati la stessa cultura di stampo veneto, gli stessi valori, le stesse usanze e consuetudini, e anche la storia politica ed amministrativa era stata spesso comune e queste vicinanze culturali, religiose e linguistiche favorirono subito l’inserimento degli esuli nel tessuto sociale gradese”.
Considerato che una parte rilevante della popolazione della costa istriana si occupava di pesca, a Grado, malgrado la cesura con la terra originaria, i nuovi arrivati non si sentirono del tutto estranei, anzi, in quell’estremo lembo di Venezia Giulia poterono continuare a esercitare la tradizionale attività e non pochi, oltre a portarsi seco le conoscenze di un lavoro che si tramandava di generazione in generazione, riuscirono a trasportare nell’Isola del Sole anche le loro imbarcazioni.
Una parte non indifferente degli esuli giunti tra il 1947 e il 1950 furono accomodati nelle ville e negli alberghi della zona e taluni, prima di trovare una sistemazione definitiva, vi rimasero per un lungo periodo, almeno sino al 1958. Il comune di Grado dovette far fronte ad un problema di un certo spessore e portata; infatti, dovette provvedere a dare un tetto a 1.730 uomini, donne e bambini. L’ultima ondata di profughi giunse dopo il 1954: si trattò di alcune centinaia di persone provenienti per lo più dall’agro buiese, umaghese e cittanovese.
A Fossalon come nell’agro istriano
Una parte di siffatte famiglie, grazie all’Ente Nazionale per le Tre Venezie, trovò nelle campagne di Fossalon dei poderi (in tutto 142 unità) di superficie pari a cinque ettari, mentre 12 avevano una dimensione pari al doppio. Tra la città di Grado e la località di Fossalon, tra il 1943 e il 1956, si registrarono circa 3.500 profughi, di cui circa la metà rimase solo temporaneamente per poi spostarsi altrove. Rumici ha raccolto, inoltre, alcune testimonianze e presenta una galleria di personaggi. Come abbiamo evidenziato all’inizio, l’autore ha dedicato una piccola monografia anche a quegli esuli che giunsero a Fossalon.
Le zone orientali della laguna di Grado sino al primo dopoguerra erano paludose e insalubri e predominava la malaria. Con la “redenzione”, il comprensorio situato tra il mare, l’Isonzato, Punta Sdobba ed i Canali di Zemole, Primero e Cucchini furono interessati dai lavori di trasformazione fondiaria ed il comprensorio fu battezzato “Bonifica della Vittoria”. Il già ricordato comune, non potendo provvedere direttamente alle opere di bonifica, vendette, tra gli anni 1928-1934, l’intero comprensorio di Fossalon, di Val Primero e di Boscat all’Opera Nazionale Combattenti.
I lavori veri e propri iniziarono nel 1933 e terminarono nel 1941; i piani di trasformazione agraria, invece, furono eseguiti tra il 1936 e il 1943. Lo scoppio del conflitto impedì ulteriori sviluppi e molti progetti rimasero solo sulla carta. Guido Rumici riporta che proprio durante la guerra a Fossalon fu creato un campo di internamento per circa 100-150 sloveni deportati in quanto familiari di persone che avevano aderito alla Resistenza. Dopo l’armistizio, e con l’intensificarsi dell’attività partigiana nell’Istria interna e nel Goriziano, l’Ente Nazionale per le Tre Venezie ritenne opportuno dislocare una parte della popolazione rurale, situata in zone ritenute ad alto rischio di sicurezza, nella più tranquilla zona di recente bonifica.
Soltanto dall’area della Valdarsa partirono, nel febbraio 1944, 143 persone; altre famiglie di coloni provenivano, invece, dal Carso triestino o dalla Valle dell’Isonzo. L’area in questione fu, inoltre, allagata dalle forze militari tedesche (ottobre 1944) in quanto temevano un possibile sbarco alleato in qualche settore dell’Adriatico settentrionale. Oltre un migliaio di ettari rimase completamente sommerso dalle acque sino al maggio del 1945. Al termine della guerra iniziarono i lavori per ridare vita alla zona e far sì che le attività agricole riprendessero.
Con la firma del Memorandum di Londra e la fine del nodo di Trieste, la zona accolse non pochi profughi dalla Zona B. Alle famiglie rurali si desiderava offrire un ambiente il più possibile simile a quello istriano, sia dal punto di vista ambientale sia da quello agrario. Alle medesime si cosegnò dei terreni nella maggior parte dei casi incolti ma che fossero suscettibili di una rapida trasformazione e al così si evitò di sottrarre i terreni curati dalla popolazione locale. Il lavoro è corredato da molte foto che raffigurano l’ambiente agricolo e al contempo testimoniano lo svolgersi della vita e dei lavori a Fossalon, che nel secondo dopoguerra divenne a tutti gli effetti una cittadina anche istriana.
Kristjan Knez