di GABRIELLA ZIANI
Il segretario dell’Unione slovena Damijan Terpin lamenta la presenza di alunni italiani nelle scuole con lingua d’insegnamento slovena («i nostri bambini a ricreazione parlano italiano, perché piuttosto non si insegna lo sloveno nelle scuole italiane?»). Un po’ come dire: si facciano più in là. L’argomento fa sobbalzare (molti e immediati anche i commenti sul sito di Facebook del «Piccolo»), mentre vista dalle aule scolastiche la questione è un’altra: riguarda casomai la tensione a dare a ciascuno una cultura adeguata, con mezzi che scarseggiano e calano. Per corsi aggiuntivi, per esempio, che si fanno e da tempo, perché nelle scuole slovene a ignorare la lingua non sono solo bambini neoiscritti di lingua italiana, ma (come nelle scuole italiane) romeni e serbi e d’altre parti del mondo, c’è per esempio alle elementari un bimbo brasiliano i cui genitori, pur consigliati di iscrivere il figlio a una scuola italiana più facile per ceppo linguistico, hanno insistito per quella slovena.
E così i piccoli italiani si ritrovano, per difficoltà linguistica iniziale, alla pari con gli scolaretti che la politica chiama «extracomunitari» e che il ministro Gelmini vorrebbe limitare al 30% del totale in ogni classe per non rallentare il ritmo di studi. «Crudele ma vero – afferma Marjan Kravos, direttore della elementare Ivan Grbec di Salita de Marchi ma anche di molte altre scuole dalla materna in su a guida «verticalizzata» e tutte in centro città -, e noi ormai ci facciamo spesso la domanda: ”a che cosa servono le nostre scuole slovene?”. La mia risposta: servono alla popolazione del territorio, ma la presenza di bambini che non conoscono lo sloveno per forza rallenta i ritmi scolastici, per questo consigliamo di iscrivere i bambini già alla materna, a 3 anni giocando s’impara il linguaggio quotidiano, e ci vogliono non meno di 3 anni per acquisire tanta disinvoltura da poter apprendere anche le materie nella lingua nuova. Ma facciamo corsi e laboratori, anche d’estate. È una sfida: come dare il più possibile? Come ridurre il tempo di apprendimento? Non è un problema però – prosegue Kravos -, bensì un punto di forza, è un mezzo di conoscenza della lingua e della cultura slovena, è il disgelo per la comunità triestina. Per me – conclude – contesto multiculturale significa esprimersi nella propria lingua ed essere compreso dall’altro».
Cade un po’ di lato dunque l’appello di Terpin, perché a scuola, a contatto con le famiglie, si vedono anche i motivi di questa fusione, non nuova del resto (a Muggia molti genitori portano i figli oltre l’ex confine). Le opzioni sono due. Ci sono italiani (anche non triestini) che scelgono consapevolmente per i figli la scuola slovena come opportunità culturale, e ci sono (nel 50% dei casi secondo Kravos) famiglie con radice slovena nel tempo «assimilate» che decidono di tornare, coi figli, nel contesto culturale originario.
Il fenomeno, detto di «de-assimilazione», si vede in parte anche alle superiori, dove i ragazzi italiani in scuola slovena sono solo una piccola percentuale, «ma a quell’età già scelgono – spiega Loredana Gustin, preside dei licei Preseren e Slomsek -, e magari vogliono tornare alla lingua dei nonni, nel frattempo persa in famiglia. Un sondaggio alla Preseren ci ha detto che il 40% di non sloveni erano mistilingui (tanti ormai i matrimoni misti) e il 2-3% di lingua italiana. Comunque le scelte avvengono molto per caso e per praticità – dice la preside -, non per ”convinzione slovena”, chi fa interventi politici non conosce forse la situazione, io a scuola sento parlare sloveno, italiano, dialetto triestino, dialetto sloveno del Carso, non si può più parlare di ”annacquare” la slovenità, sono cose di un’altra generazione, i giovani non sentono questo macigno, e noi sloveni – conclude – non possiamo ulteriormente chiuderci…».
Quanto a insegnare lo sloveno nelle scuole italiane, si può fare e già si fa: il 20% dell’orario è riservato a scelte didattiche non ministeriali.