Anche nel 1946 il 18 agosto era domenica, una giornata in cui tantissime famiglie si recarono al mare per una giornata di svago e di divertimento. In tutta Italia, anche a Pola, città che era sì sotto amministrazione militare angloamericana dal giugno 1945, ma, in attesa delle decisioni della Conferenza di Pace che avrebbe definito il nuovo confine tra Italia e Jugoslavia, la sovranità apparteneva ancora all’Italia. Così come sul resto dell’Istria, che però era sotto amministrazione militare jugoslava e pertanto i Poteri Popolari proseguivano la loro opera di assimilazione del territorio all’interno degli apparati della dittatura comunista di Josip Broz “Tito”. Per gli oppositori del regime o per chi rivendicava l’italianità dell’Istria scattavano deportazioni, arresti, violenza e sparizioni nel nulla. Era lo stesso clima di terrore che a guerra finita aveva colpito per Quaranta giorni tutta la Venezia Giulia e Fiume e che a Zara si era abbattuto nel novembre del 1944: una “liberazione” che invece significava volontà di annessione alla nascente Jugoslavia comunista che però aveva sposato le rivendicazioni dei nazionalisti sloveni e croati nei confronti delle regioni della frontiera adriatica, compresa la fascia costiera abitata in prevalenza da italiani autoctoni.
Dall’entroterra istriano tanti fuggivano a Trieste o a Pola, per cui le notizie circolavano e si era a conoscenza di quel che stava succedendo. La città dell’arena rappresentava un’enclave di tranquillità in mezzo al terrore “titino”, anche se nel marzo 1946 le organizzazioni jugoslave erano riuscite a far giungere centinaia di manifestanti croati dalle campagne in concomitanza con la visita della Commissione Interalleata che avrebbe dovuto valutare il nuovo confine. La sfilata di un corteo inneggiante alla Jugoslavia avrebbe dovuto falsare agli occhi dei commissari la prevalente italianità del capoluogo istriano, italianità che i polesani ribadirono con una fiaccolata al termine di una tumultuosa giornata. Un’ulteriore manifestazione patriottica aveva avuto luogo pure la sera di Ferragosto nell’arena di Pola: fiaccole, bandiere tricolori e canti patriottici, tra cui soprattutto uno struggente “Va’ pensiero”, un appello alla Patria al di là dell’Adriatico.
Domenica 18 agosto si sarebbe invece svolta la manifestazione sportiva Coppa Scarioni, organizzata dalla Pietas Julia, società nautica fondata nel 1886 che aveva preso il nome di Pola romana per ribadire la sua vocazione patriottica in un’epoca in cui era ancora in corso la dominazione austro-ungarica. L’evento avrebbe avuto luogo sulla spiaggia di Vergarolla, ove a guerra finita erano state depositate e disinnescate le mine subacquee che durante il conflitto avevano rappresentato la difesa della base navale. Intere famiglie si sarebbero recate ad assistere alla gara ovvero avrebbero trascorso una domenica balneare: asciugamani stesi ad asciugare e inseguimenti fra bambini avevano reso nel corso di quell’estate quel mucchio di ordigni inerti un elemento del paesaggio.
Alle 14:10 qualcuno sentì uno strano sfrigolio, poi un’esplosione devastante. In città tremarono i vetri delle finestre, lo sguardo di tutti andò in direzione di Vergarolla ed una colonna di fumo indicava il luogo in cui fino a pochi secondi prima ragazzi, bambini, genitori e nonni stavano trascorrendo una spensierata domenica d’agosto.
Una mano omicida aveva innescato una miccia che aveva fatto esplodere quel deposito di mine, provocando una strage. I soccorritori si trovarono di fronte ad una scena apocalittica: corpi fatti a pezzi, urla, brandelli umani schizzati sui rami della limitrofa pineta, pianto e disperazione, gabbiani impazziti che si tuffavano in un mare rosso sangue e prendevano il volo tenendo pezzi di corpi umani nel becco. L’ospedale cittadino Santorio Santorio fu preso d’assalto da polesani in cerca di notizie di amici e parenti, mentre continuavano a giungere feriti che il dottor Geppino Micheletti, già medico militare durante la Seconda guerra mondiale e quindi abituato a operare in condizioni di emergenza, operava e curava ininterrottamente. Ma nemmeno nelle peggiori giornate vissute durante gli eventi bellici il suo lavoro venne funestato da una notizia così ferale: nel novero delle vittime c’erano anche i suo figli Carlo e Renzo, di 5 e 9 anni, che erano andati in spiaggia assieme agli zii e alla cuginetta, anche loro uccisi. Pur straziato da questo immenso dolore, Micheletti continuò a operare, a salvare vite umane, a lottare contro la morte. Dopo l’esodo fu assegnato all’ospedale di Narni in Umbria: in una tasca del suo camice teneva una scarpetta di Renzo, tutto ciò che restava di un bambino polverizzato da quell’esplosione.
Decine furono i feriti, 64 le vittime identificate, tra cui tantissimi bambini, ma in base ai resti che non fu possibile ricomporre la stima dei morti supera il centinaio. Le modalità d’innesco delle mine rimandano ad artificieri provenienti dai ranghi dell’OZNA , la polizia segreta di Tito, già esecutrice di quell’epurazione politica che aveva colpito pesantemente la Venezia Giulia. Si trattò di un nuovo pesante messaggio minatorio agli italiani di Pola, un nuovo colpo mortale all’italianità polesana, un’ulteriore violenta spinta all’abbandono della propria terra, all’adesione a quel Comitato spontaneo per l’Esodo da Pola costituitosi quando cominciò a girare voce che alla Conferenza di Pace stava prendendo corpo l’assegnazione della città alla Jugoslavia. Il 2 giugno 1946 era iniziata la storia della Repubblica italiana, poche settimane dopo si consumò l’attentato con il più alto numero di vittime civili della sua storia: nemmeno le efferate stragi degli Anni di Piombo avrebbero eguagliato questa carneficina. Vergarolla: la prima strage, la più sanguinosa, la più dimenticata.
Lorenzo Salimbeni