Dall'intervista di Alessandro Mezzena Lona allo scrittore sloveno Boris Pahor.
«Il problema delle lingue minoritarie mi sta a cuore da sempre – spiega Boris Pahor, seduto al bar, con una tazza di caffè tra le mani, in uno dei rari momenti di tranquillità che gli concedono le sue frenetiche giornate -. Fin da quando, negli anni Settanta, mi occupavo della rivista ”Zaliv” (Il golfo). Allora c’era un grande fermento in Italia. Prendeva forma anche una sezione dell’Organizzazione internazionale per la difesa delle lingue e delle culture minacciate, che arrivava dalla Scandinavia. Lì, un gruppo di professori aveva scritto una lettera all’Unesco».
Che cosa diceva?
«In pratica, spiegavano che in giro per il mondo c’erano movimenti che si battevano per la difesa della natura, dell’acqua, degli animali. Ma che non ritenevano giusto veder spegnersi lingue, culture legate a popoli poco rappresentati».
È servito a qualcosa?
«Abbiamo fatto parecchio. Due volte all’anno, in primavera e in autunno, andavamo a incontrare una delle dodici comunità minoritarie riconosciute in Italia: ladini, friulani, sloveni, catalani di Alghero, albanesi del Sud dell’Italia, e così avanti. Sono usciti libri, pubblicazioni. Il nostro messaggio era molto chiaro: parlate, fatevi sentire. Create riviste, non arrendetevi».
Poi com’è finita?
«Quando è stato creato il Parlamento europeo, all’inizio arrivavano fondi per la tutela delle culture e delle lingue minoritarie. Ma, piano piano, mi sembra che l’interesse sia scemato. E anche i contributi. Allora l’attività si è trasferita più su un piano politico».
Ma l’Europa rispetta le lingue minoritarie?
«Sulla carta sì. Esistono delle regole precise. Però chi controlla che ogni singolo Paese della Comunità rispetti le norme approvate? E se anche non le rispetta, chi si incarica di intervenire? So che in Francia, ad esempio, i bretoni hanno chiesto che la loro lingua sia insegnata anche nelle scuole, senza successo».
Funzionerà un po’ come con la nostra legge 482…
«Sì, perché ci sono regioni come il Friuli Venezia Giulia dove viene applicata, sia per i friulani che per gli sloveni. In altre zone, invece, gli amministratori non sono così solerti».
C’è chi, in Italia, fa ancora fatica ad ammettere che il fascismo ha provato a eliminare gli sloveni dalla Venezia Giulia. Perché?
«Bisogna tornare indietro nel tempo. Per l’esattezza all’unità dell’Italia. Lì è iniziato lo scontro per l’italianità di Trieste. Perchè, ovviamente, la presenza degli sloveni poteva essere considerata come un’ombra. Insomma, non consentiva di affermare che la città era da sempre italianissima. Nonostante le origini romane e tutto il resto».
Ma allora Trieste era ancora sotto l’Impero austro-ungarico.
«Infatti. Ma il problema è che la comunità slovena non aveva alcun interesse di lottare perché Trieste fosse tolta agli austriaci e restituita agli italiani. Ma non si è certo opposta a questo ritorno alla Patria: ci si aspettava che qui arrivasse l’Italia di Giuseppe Mazzini, dei liberali. Di quelli che rispettavano i diritti di tutti».
Dialogare con gli irredentisti non era facile…
«Non con quelli più scalmanati. Il problema è che gli sloveni non vedevano alcun tornaconto nell’abbandonare l’Impero austriaco, mentre gli irredentisti italiani sognavano di ricongiungersi alla Patria. Così sono iniziate le diffidenze, poi le divisioni, gli scontri. Ma la storia più bella è un’altra».
Quella di Oberdan?
«E sì, quella è una storia tutta da raccontare. Perché Wilhelm-Guglielmo, il martire italiano, era in realtà figlio di Josepha Maria Oberdank, una slovena di Gorizia. Figlio illegittimo, che poi ha avuto per padre un soldato veneto. Un uomo in gamba: ha tentato anche di aiutare il ragazzo, che non doveva essere un tipo facile. Equilibrato».
Gli irredentisti consideravano gli sloveni fedeli all’Austria.
«Se l’Austria avesse concesso un po’ più di autonomia a cechi, slovacchi, sloveni, croati, forse l’Impero non sarebbe crollato così. Chissà, l’Europa e l’Italia avrebbero avuto un’altra storia. Forse è per questo che non ho mai amato la lingua tedesca, che mi rifiutavo di studiarla».
Nei lager, però, ha dovuto almeno tentare di parlarla, di capirla?
«Purtroppo sì. Anche perché chi non capiva i comandi, chi non rispondeva quando veniva chiamato, riceveva punizioni durissime. Ricordo uno sfortunato compagno colpito con il manganello quando non obbediva agli ordini».
Difficile riconoscere, ancora adesso, la violenta aggressione dei fascisti agli sloveni di Trieste?
«Qualcuno potrebbe dire: tutta colpa della Destra. Ma io non sono d’accordo, perché non tutti i politici del centrodestra sono uguali. Per esempio, Gianfranco Fini: quando è andato in Israele ha riconosciuto che il fascismo è stato un male per l’Italia. Ecco, questo dimostra che ci sono persone illuminate anche in quello schieramento politico. Vorrei scrivergli una lettera».
A Gianfranco Fini?
«Sì, anche se non sono sicuro di essere tanto famoso da potermi arrischiare a scrivergli. Vorrei ricordargli che hanno sempre parlato delle foibe, ma si sono dimenticati delle persecuzioni contro gli sloveni di Trieste. Purtroppo, in questa maniera si trasforma la Giornata del Ricordo in qualcosa di totalmente antieuropeo».
In che senso?
«Prendo ad esempio le parole del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Ricordando la tragedia delle foibe, ha puntato il dito contro gli slavi sanguinari. Ma come, proprio lui che per anni ha militato nel Partito comunista. Pensa così di creare un clima di fratellanza europeo, di rispetto tra le diverse comunità che vi convivono? Ma noi chi siamo: figli di nessuno?».
Il Comune ha preferito ritirare il suo riconoscimento, piuttosto che ammettere le violenze fasciste contro gli sloveni…
«Non importa, non si può accettare una benemerenza calpestando la propria dignità. Io non vado in cerca di riconoscimenti, ma sono felice che La Provincia abbia deciso di assegnarmi un’onorificenza. Ci sarà una cerimonia con tutti i sindaci del Carso».
La Trieste di oggi è sempre più multietnica…
«La comunità slovena, ormai, è affiancata da una nutrita presenza di croati, di serbi. Per non parlare dei cinesi. E allora, perché si continua ad avere paura degli altri? Delle lingue degli altri? Siamo ancora fermi all’immagine stereotipata dell’italianissima Trieste?».