È di prossima uscita un nuovo libro dell’esule da Pola Roberto Stanich. Questa sua seconda fatica porta il titolo “La vita xe ancora bela” con sottotitolo “Tuti devi morir, diseva mio nono, forsi anche mi…ma no’l iera convinto”. Il volume è edito da “Lampi di stampa” ed è la continuazione del precedente “L’Imprinting dell’Istria”. Include una trentina di racconti, di cui una parte è già stata pubblicata sulle pagine di questa nostra rubrica ma altri sono inediti. Per gentile concessione dell’autore in questa nostera edizione vi proponiamo l’introduzione ed il primo racconto. Buona lettura.
Fine gennaio 1956, sono seduto in uno scompartimento di seconda classe del diretto per Genova. Di fronte a me siedono i miei genitori. Abbiamo lasciato Pola, in Istria, due settimane fa e, dopo aver trascorso una decina di giorni al centro smistamento di Udine, siamo stati destinati al campo profughi di Tortona. Nessuno di noi parla, seguiamo pensieri confusi: troppi cambiamenti in così poco tempo, tanta incertezza per il futuro. Scruto il paesaggio dal finestrino ma c’e poco da vedere, una campagna piatta ricoperta di neve, interrotta di tanto in tanto da radi pioppeti. Arriviamo a Tortona che è già buio, fa freddo e nevica. I pochi passeggeri, che scendono infreddoliti dal treno, si avviano frettolosamente verso casa. Sotto la pensilina rimaniamo solo noi con le nostre valige. È tutto quanto possediamo. Ci hanno dato un indirizzo dove presentarci: Centro Raccolta Profughi, Corso Alessandria 62. Chiediamo informazioni ad un ferroviere.“Ah”, dice, “la caserma Passalacqua”, e ci indica la strada per arrivarci.
Ci avviamo sotto la neve. La strada è scivolosa e le valige pesano. Di tanto in tanto ci fermiamo per riposare, siamo bagnati fradici e distrutti dalla fatica. Finalmente arriviamo in Corso Alessandria. Alla destra c’è un vasto piazzale, dove, impareremo più tardi, si tiene il mercato del bestiame e, di fronte, la caserma Passalacqua. È una costruzione del 1800, con quattro padiglioni disposti a quadrilatero e, nel mezzo, la piazza d’armi. Sotto un androne c’è un posto di Polizia, entriamo e facciamo vedere i nostri documenti. Il poliziotto ci dice di attendere e va a cercare qualcuno. Arriva un incaricato, ci guarda infastidito, “è tardi”, dice, “come faccio a sistemarvi?” Poi, però, si rende conto delle nostre condizioni, si impietosisce e si dà da fare per assisterci. Ci conduce lungo un porticato fino al padiglione, lato sinistro. Ci fa entrare in un grande stanzone. Dentro, tanti scomparti a cielo aperto, ricavati con coperte appese a tiranti, luce fioca di lampadine che pendono dagli alti soffitti, rumore di voci, di sedie smosse, di stoviglie, fumo, odore di cibo e di varia umanità. Ci inoltriamo lungo un corridoio, delimitato dalle coperte e ci viene indicato un scomparto libero. “Ora”, dice l’incaricato, “andiamo a prendere le brande e la paglia”. Lasciamo le valige e lo seguiamo in un locale attiguo. Ci viene data una balla di paglia, con la quale riempiamo dei sacchi che fungeranno da materassi, delle coperte e tre brande. Trasportiamo il tutto nello scomparto che in futuro sarà la nostra nuova casa. Arriva una suora, “poverini” dice “avrete fame, volete un po’ di latte caldo?” “Magari, grazie suora”, risponde mia madre. La suora si allontana e ritorna di lì a poco con una pentola e alcune tazze. È latte artificiale, fatto con la polvere, ma è caldo e ci ristora. Rimaniamo soli e la tensione si allenta. Guardo i miei genitori seduti su di una branda. Mia madre inizia a singhiozzare. Mio padre cerca di consolarla, ma pure lui ha gli occhi pieni di lacrime. Non riesco a trattenermi e scappo; esco dallo stanzone e inizio a correre nella neve. Respiro a pieni polmoni l’aria fredda della notte, raggiungo il centro della piazza d’armi urlando di rabbia e, finalmente, riesco a sfogarmi con un pianto liberatore.
Mi son nato in casa de mia nona a Canfanaro, dove che se gaveva trasferì mia mama de Pola, perché iera guera e mio papà el iera stà riciamà a far el militar.
Mia mama me contava che, apena nato, iero bruto, sensa cavei, tuto rugoso in viso e che piansevo sempre. Per migliorar el mio look, come che se diria adesso, mia mama, che la iera brava de cusir e de ricamar, la me fasseva tanti bei vestitini, ma serviva a poco. Mia nona invese la diseva “nol xe bel, ma el xe simpatico”. Ma, se sa… le none. A pianser son andà avanti per tanti mesi, ma iera guera, mio papà iera via, de magnar iera poco, tuti pianseva e piansevo anche mi.
Per fortuna, dopo qualche anno, la guera xe finida, mio papà el xe vignù a casa san e salvo e semo tornai a viver a Pola. Xe andai via i Tedeschi, xe rivai i Druzi, po’ i Inglesi e i Americani, e dopo, ancora i Druzi. Mi intanto cressevo in forsa, belessa (per modo di dir) e inteligensa (?!?)
Go scomincià a andar a scola e i me ga messo un fassoleto rosso intorno al colo e una bareta blu con la stela rossa in testa. “Sei un pioniere”, i me ga dito, “insieme edificheremo el socialismo”. Mi no capivo ben cossa che i voleva dir, ma me piaseva la parola “edificheremo”. La me fasseva sentir importante. Dopo un per de ani, quando che i ga anuncià che el socialismo iera stado “edificado”, mio nono ga dito che iera una bala e, alora, semo vignudi in Italia.
Mi go continuà a andar a scola, in colegio e a cresser. Co go finì la scola, i me ga messo una divisa grigio verde e i me ga mandà a servir la Patria. Intanto gavevo conossù una mula e me pareva de no poder viver senza de ela. Cussì, co son vignù fora de militar, se gavemo sposà. Gavemo fato tre fioi, perché 3 xe el numero perfeto e perché el terso fio doveva esser el baston dela nostra veciaia (???). Li gavemo rilevai, fati cresser, fati studiar, e sistemai col lavor. I ne ga dito grassie e i xe andai per conto suo, anche el terso, quel che doveva esser el baston dela nostra veciaia. Ma dopo un poco i xe tornadi e no soli. Insieme xe rivadi seneri, gnore e nipoti, cussì che adesso la casa xe più piena de prima.
Intanto che sucedeva ‘ste robe, noi lavoravimo, lavoravimo, lavoravimo e ancora adesso lavoremo, lavoremo, lavoremo. Una matina me son sveiado e go sentì che me fasseva mal una gamba, tirandome su del leto sentivo un dolor ala schena e, dopo, fassevo fadiga a scufarme per ligarme le spighete dele scarpe. Son andà davanti al specio e me son dito “chi xe quel vecio che me varda?” E cussì, son entrà anche mi a far parte dela categoria dei noni, de quei che, eufemisticamente, i vien ciamai “dela terza età”.
E adesso che de nipoti ghe ne go cinque, dopo che l’ultimo mio fio, l’ano scorso, me ga regalà due gemei, mi digo che la vita xe ancora bela e che spero de rivar anche ala quarta e ala quinta età. Per la sesta, iera quel che dixeva “i miracoli oggi non li facciamo, provate a passare domani”.
Domani vedaremo…