di Roberto Spazzali su Il Piccolo del 3 maggio 2010
La concessione ma il mancato conferimento della medaglia d’oro al valor militare al gonfalone della città di Zara, oggi conservato a Roma presso la sede del gruppo medaglie d’oro al valor militare, è un caso di ipocrisia ufficiale così emblematico che andrebbe studiato e citato come esemplare rappresentazione della pochezza delle italiche istituzioni politiche.
Ne parla Paolo Simoncelli in ”Zara. Due e più facce di una medaglia”, con una postfazione di Ottavio Missoni (La Nuova Meridiana – Le Lettere, 15,00 euro) in un agevole libricino che ricorda per l’amara costernazione un lavoro misconosciuto di Antonio Sema “La fine di niente” sui rapporti tra Italia, Slovenia e Croazia nel biennio 1994-95.
La vicenda così si può riassumere: per iniziativa della medaglia d’oro Furio Lauri, dalmata e partigiano combattente, sollecitato dalla positiva visita dell’allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro in Istria e dopo il suo discorso del 31 dicembre 1997 in cui era stato ricordato il dramma degli italiani dell’Adriatico orientale, era stato avviato l’iter per la concessione della massima onorificenza alla città, ovvero per ciò che essa rappresentava nel cuore dei dalmati dopo la sua distruzione e l’esodo di quasi tutta la sua popolazione italiana, e per mezzo di essa onorare e ricordare simbolicamente tutte le altre città perdute.
Nulla di male o di offensivo dal momento che l’iniziativa riguarda principalmente l’orizzonte interno italiano e i rapporti con la Croazia, lentamente uscita dalle guerre balcaniche e dal regime di Tudjman, erano improntati a una certa serenità. Viene predisposto un testo che dal quel momento in poi è al centro di una serie di correzioni, modifiche, sostituzioni, operazioni di cosmesi sulle quali un po’ tutti si esercitano meno che gli stessi proponenti: via via il riferimento al contributo di Zara nella lotta partigiana si altera, quello all’occupazione tedesca si smussa, scompare poi l’accenno ai profughi zaratini che fortunosamente riportarono in Italia il gonfalone (per l’esattezza fu Giacomo Vuxani che lo conservò in famiglia fino al 1964 quando i figli Giorgio e Giuseppe lo consegnarono al Libero comune di Zara in esilio) e pure quello dei bombardamenti anglo-americani che rasero al suolo l’intera al città tanto da potersi definire la Dresda dell’Adriatico. Viene pure chiesto parere anche alle associazioni ex combattentistiche e partigiane e l’Anpi a sua volta si fa consigliare da quelle di Trieste e Udine, insomma pure con qualche difficoltà un testo, in verità un po’ fumoso e per lo più allusivo, è concordato.
Nel frattempo alcune cose erano cambiate: c’era stata la crisi militare del Kossovo, il bombardamento Nato su Belgrado, in Italia si erano succeduti alcuni governi di centro-sinistra da Prodi a D’Alema ad Amato, pure i rapporti con la Croazia erano mutati in seguito alla riapertura della questione dei beni abbandonati e del procedimento giudiziario noto come “processo Piskulic”. Intanto Carlo Azeglio Ciampi era diventato presidente della Repubblica e dopo la visita di Mesic a Roma, il 21 settembre 2001 firmava il decreto di concessione della medaglia la cui consegna sarebbe avvenuta di lì a due mesi il 13 novembre, dopo il rientro da una visita ufficiale in Croazia. Nel frattempo era cambiato pure il governo in Italia e Berlusconi aveva incaricato il ministro degli esteri Ruggiero di avviare contatti con la Croazia per la stipula di un Accordo di amicizia dietro il quale non era difficile intravedere qualche affare e qualche opportunità per l’imprenditoria italiana.
Ma quando sembra tutto fatto ecco che il 25 ottobre 2001 il governo croato manifesta improvvisamente sorpresa e contrariato stupore per la decisione italiana di conferire la medaglia a ciò che restava della passata Zara italiana. Zagabria aveva appreso per canali che tuttora risultano ignoti la notizia fino allora rimasta riservata scatenando una offensiva mediatica alla quale si accodavano “Il manifesto”, qualche intellettuale sempre pronto a giustificare le riprovazioni croate e perfino “Famiglia cristiana” con l’inevitabile sproloquio di Francesco Cossiga, e la conseguente marcia indietro, senza spiegazioni e pure senza soluzioni alternative che gettavano nello sconforto gli esuli dalmati che tante speranze avevano riposto in quel riconoscimento morale.
Ora il decreto da qualche parte c’è e forse pure la medaglia, nascosta nel fondo di cassetto. Una storia tutta italiana molto simile a quella che ha accompagnato il francobollo commemorativo di Fiume oppure la proposta di aggirare i problemi derivanti da un’onorificenza ufficiale con l’istituzione di medaglie al merito da assegnare a singole persone o intere popolazioni.
Paolo Simoncelli osserva che tanto la Croazia e la Slovenia come in passato la Jugoslavia hanno spesso usato l’arma della contropartita morale verso l’Italia la cui debolezza sta nel rapporto conflittuale con la sua storia e nell’uso ipocrita della memoria per cui lapidi e concessioni presentano motivazioni indeterminate e fumose, in un continuo richiamo allusivo e mimetico di una storia sì complessa e non lineare ma resa ancora più distante dalla comprensione comune con un esercizio retorico che è il vero esercizio dell’arte del tacere, specchio di autosustanziali prudenze e dei consueti tentennamenti della politica italiana.