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Il coro di tre popoli, una lingua sola (Il Piccolo 10 lug)

di PAOLO RUMIZ

RAVENNA Ore 10.30, cinque minuti al via, il primo violino – un biondino italiano dell'orchestra Cherubini – si alza, risponde al La, e il silenzio teso dell'ex magazzino dello zolfo si gonfia di quell'unica nota assoluta, frequenza 440 moltiplicata per 130, corde, ottoni, strumenti ad ancia; cresce per mezzo minuto con la forza regolare del vento di Maestro che riempie una vela di randa, fa vibrare l'edificio dalle fondamenta, si spande per il porto semivuoto di Ravenna bizantina, tutta mattoni e respiro di mare, poi viene riassorbito dal silenzio.

Centotrenta, tanti sono i giovani in attesa del primo colpo di bacchetta di Riccardo Muti alla gran prova del concerto triestino delle tre nazioni: e non è ancora niente rispetto a quanto accadrà oggi, quando all'orchestra si aggiungeranno i 230 coristi venuti da Italia, Slovenia e Croazia. Trecentosessanta ragazzi, la ciurma di un incrociatore da battaglia, che martedì solcheranno l'Adriatico per occupare le Rive di San Giusto e suonare il loro Requiem per i morti di una frontiera lacerata.

Una camicia candida, quasi fosforica, sbuca da una tenda nero-seppia, s'infiltra tra le custodie enormi dei contrabbassi, le scarpe lucidate scricchiolano tra le ciabatte e gli shorts degli orchestrali in tenuta balneare, e dal podio la voce del Maestro comparso dal nulla coglie tutti di sorpresa. «Siamo qui per suonare nel nome della fratellanza, della libertà e dell'amore». Brotherhood, freedom and love. Parla come un padre severo e paziente. E ancora: «Nostro compito non è parlare delle colpe del passato, ma creare le premesse di un futuro di concordia».

Ed ecco che dai giovani sloveni e croati parte un applauso spontaneo e imprevisto, quelli italiani un po' stupiti dall'inusuale rompete le righe vanno loro dietro. Tutti hanno capito e sono d'accordo con quel proposito di ferro: produrre un atto sinfonico capace di annullare i miserabili contrappunti di una politica che per troppo tempo ha campato di frontiere e divisioni. Guardare avanti dunque. E Trieste è il posto giusto per dirlo.

Si appollaia sul seggiolino, annuncia il madrigale sloveno, “Libertas animi”, improvvisazione moderna di Andrej Misson su un pezzo rinascimentale di Iacobus Gallus: frusciare di spartiti, l'orchestra attacca, il sulfureo magazzino del Ravenna Festival diventa un'unica potente cassa armonica, l'uomo in camicia si alza in piedi, si sbraccia, chiama imperiosamente “Corni!”, “Violini!”, “Bassi!”, “Tuba!”, la risonanza è pazzesca, tutt'uno con l'emozione di quei ragazzi davanti alla prova della loro vita.

«Troppo veloce qui, troppo veloce! Siamo in piazza, dev'essere tutto più Largo, altrimenti perdiamo in maestà…». Herr Direktor interrompe l'orchestra, ma ci vogliono otto-dieci secondi, è come fermare un fiume in piena, l'inerzia di una macchina da 130 elementi è impressionante. Riattacca, è felice, ora canta da baritono, “li-ber-tas-a-ni-miii”, imita il rullo del tamburo e l'andirivieni dell'archetto, le rughe si stendono, si scioglie la tensione di giorni e notti. Ah, insegnare è meglio che dirigere i Wiener Filarmoniker, la capanna dello zolfo diventa bottega di maestri cantori, trincea dell'armonia contro un mondo dominato dal frastuono.

«Ra-riii, ra-ra-riii, ra-ra-riii, ra-ra-riii», il pezzo croato romantico di Jakov Gotovac – Himna Slobodi su parole di Ivan Gundulic – ha andamento fluviale, pannonico, il Maestro lo drammatizza a gesti e lo interpreta a voce per indirizzare i violini, una foresta di archetti che freme come spinta da raffiche di bora, e risuonerà chissà come tra il mare e le montagne, il molo San Carlo e il palazzone austriaco del Lloyd.

«Gli inni, ragazzi, gli inni. Dovete suonarli con lo spirito nobile della Nona Sinfonia di Beehetoven, diminuendo and than crescendo, largo a tutta forza…, belli o brutti che siano sono comunque espressione dell'anima di un popolo». Duecentossessanta occhi sono fissi sul Maestro. In piazza grande a Trieste saranno decine di migliaia, a cogliere l'attimo atteso da decenni dell'ultimo diaframma che si rompe, la catarsi di una città dove mai si è sentito in un contesto solenne l'omaggio in musica ai nemici di ieri.

Chiede come si pronuncia in croato “Mia patria bella”, poi scopre quasi incredulo – nessuno gliel'ha detto – che l'inno sloveno è l'unico al mondo a non parlare né di sangue né di morti ma è un brindisi inoffensivo che ha per titolo “Salute!”, un canto di vendemmia e libagione. Si attacca, sforzato piano senza crescendo, l'uomo in camicia candida pretende più energia, “plim plam plam”, un pizzicato più sonoro dai violini che altrimenti, davanti a un coro di 260 elementi che rischia di cancellare l'orchestra.

Pausa sigaretta, in camerino Muti si augura che a Trieste non ci sia vento. È felice per la forza con cui i ragazzi italiani hanno suonato gli inni altrui. Ci tiene che la parte protocollare sia eseguita nel modo migliore, tanto più dopo i dubbi in merito espressi dal primo giornale di Lubiana, quasi il concerto di Trieste fosse un trappolone italiano teso a umiliare sloveni e croati. “Ma lei non si vergogna” pare abbia tuonato Muti nel teatro Lubiana, incontrando l'autore di quella notizia falsa e tendenziosa. E gli orchestrali sloveni gli avrebbero dato ragione.

Il pezzo forte, che più italiano non si può. Cherubini, Requiem, dall'inizio grandioso, tutto viole, violoncelli e fagotti. Tenebra, inferi, paura. «Contrabbassi state attaccati a me come sanguisughe, siete voi il fondamento di tutto». Non è un'orchestra, è una mobilitazione generale. Sul “Voca me” lo sciamano si alza dal seggiolino come un pipistrello ad ali spalancate, tiene tutti in pugno con lo sguardo, ha i capelli sulla fronte come un ragazzo. La macchina si è scaldata, l'orchestra trilingue va all'unisono, è l'esatto contrario di Babele.

L'Offertorio, la parte più pienamente sonora e corale. Corni, trombe, tromboni. «Deve sapere di incenso questa cosa… È una visione celestiale e immobile, il sentimentalismo è bandito…». Il Capo non ha delegato nulla, non ha voluto un preparatore a semplificargli il lavoro. Vuole insegnare tutto dall'inizio. È una pazzia, gli dicono, una cosa che non fa quasi più nessuno. Ma lui insiste, e basta guardare la faccia rapita dei ragazzi – tutti egualmente belli e indistinguibili secondo nazione – per capire che è la scelta giusta.

La sala è piena di buona energia, ma quando arriva la gloria del Sanctus l'energia non basta, serve più potenza, più solennità, e il condottiero deve fare appello all'orgoglio dei singoli battaglioni in manovra. “Italiani!”, “Sloveni!”, “Croati!”, qui è “tutto largo” e gli archi vanno su un martellato lungo, “ta-ta-ta-tararira”…, fino alla potenza quasi inaudita del “benedictus”. Chiama i corni urlando, per poi esigere da clarinetto e fagotto qualcosa di addirittura impalpabile, che ha da essere “più aria che suono”.

Ora siamo sull'orlo della Geenna. Il tempo del “Dies Irae” e Muti guarda guarda l'orchestra come un satanasso. «Ragazzi capisco che la giovane età è lontana dal male, ma qui è l'inferno che si spalanca, devo sentire da voi il fuoco in ogni nota, il crepitìo delle fiamme, l'inferno che ti cattura come un viscido serpente». Ed è il gong, le trombe del giudizio, l'orchestra che spara cannonate lente, disperate, ripetute, con l'uomo in camicia che si abbatte ogni volta sullo spartito come se fosse morto per davvero.

Fine della prova , i ragazzi escono su Ravenna al tramonto, aria pulita e fruscio di biciclette, respirano un sito ancora in bilico tra Venezia e Bisanzio. Molti hanno gli strumenti in spalla, se ne vanno in libera uscita come rondoni nel cielo mandarino, e quelli tra loro che sono stranieri sono stupiti che la tomba dell'Alighieri sia così defilata e dimenticata dai turisti, ma stanno bene tra i selciati silenziosi di questa città che non ha perso la memoria, ricorda con tante lapidi Mazzini e la Resistenza, Garibaldi e i suoi ebrei deportati.

Chissà se i tre presidenti potranno assaporare questo clima anche a Trieste, e chissà se i loro apparati di sicurezza sapranno lavorare senza tenere la gente lontana da questa straordinaria metamorfosi della frontiera. Intanto dall'altro lato dell'Adriatico è tempo del collaudo finale in teatro, con il coro dei tre popoli che diventano una lingua sola.

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