di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella sul Corriere della Sera del 17 luglio 2010
«Zajednica Talijana Zadar». Così c’è scritto sul campanello della Comunità Italiana di Zara. In croato? «Ha fatto tutto il Comune». Come mai non c’è una targa? «L’avevamo messa. In italiano. Ma qualcuno ce l’ha spaccata la notte stessa dell’inaugurazione», sospira Rina Villani, che guida la nostra comunità. Dice che il Municipio ha subito risarcito i danni. Ma la targa è stata presto rimossa per ordine della Sovrintendenza: disturbava l’armonia del palazzo Fozza. Anche se di plexiglas trasparente? Disturbava. E tutte le insegne dei negozi lungo la stessa Plemica Borelli Uliza? Disturbava.
C’è chi dirà: il nazionalismo slavo non c’entra. Non sta forse la comunità, a tradurre l’indirizzo, in «via conte Borelli»? Il vecchio professor Gastone Coen, che fu compagno di scuola di Enzo Bettiza a Spalato, sorride amaro: «Il conte Borelli, a dispetto dell’origine bolognese, fu un patriota croato». Di più: il «croato» Borelli è stato omaggiato dal rispetto toponomastico del cognome italiano e l’italiano Alessandro Paravia, grande letterato di schietti sentimenti risorgimentali che chiuse la carriera come docente a Torino e donò la sua immensa biblioteca alla città, è stato croatizzato: «Alesandra Paravije».
Questa è Zara, oggi. Ogni traccia del suo passato è stata accuratamente cancellata. Certo, le vetrine di Benetton hanno aperto la strada a un po’ di locali e negozi, soprattutto di moda, dal nome nostrano. Business is business. E i turisti bisogna ben accontentarli. Altri riconoscimenti, però, zero. Scriveva un secolo fa Luigi Federzoni, destinato a diventare presidente del Senato e dell’Accademia d’Italia, che «Venezia non partorì mai, nella sua lunga e copiosa maternità, figliola più somigliante di questa, ne più degna, ne più devota. Zara è adorabile. Zara dovrebbe essere in cima ai pensieri di tutti gli italiani. Per il labirinto delle calli pittoresche formicola tanta festevole, graziosa e appassionata venezianità».
Non per altro, narra la leggenda, il giorno della caduta della Serenissima, il 12 maggio 1797, nell’ultima seduta del Maggior consiglio, Francesco Pesaro avrebbe urlato al Doge Ludovico Manin: «Tolé su el corno e andè a Zara!» E quando questa dovette deporre le insegne di San Marco, il 6 luglio successivo, racconta Lorenzo Licini, «talmente dalle lacrime rimasero bagnati i vessilli» che pareva «fossero stati immersi nell’acqua». C’è poi da stupirsi se, come ha ricostruito Oddone Talpo in «Per l’Italia», gli zaratini furono numerosi nelle vicende risorgimentali? Se i rapporti della polizia austriaca erano pieni di simpatizzanti dell’Unità? Se c’erano dalmati tra i garibaldini accorsi in difesa della Repubblica romana, nelle battaglie di Curtatone e di Calatafimi, nella difesa della Repubblica veneta di Daniele Manin? Se uno dei due quotidiani in edicola a metà Ottocento si chiamava «Il Risorgimento»?
Certo, nonostante i 54 bombardamenti («Zara fu la Dresda dell’Adriatico», ha scritto Bettiza) compiuti dagli alleati agli sgoccioli della II Guerra mondiale, bombardamenti forse dovuti alle informazioni volutamente false passate agli americani dai partigiani titini interessati ad annientare l’ultimo baluardo cocciutamente italiano della costa dalmata, alcuni dei gioielli che facevano di Zara un sestiere serenissimo con 72 calli e 15 campielli, sono ancora lì. Bellissimi.
Come l’elegantissima Loggia veneta nota come loggia Paravia. O il tempio di San Donato. La Chiesa di San Simeone. La Cattedrale di Sant’Anastasia. La porta di Terraferma eretta su disegno di Sammicheli e dominata da un magnifico leone sopravvissuto alle martellate dei nazionalisti slavi. Il campo dei Cinque pozzi. Le mura. Ma nulla porta più traccia del nome che aveva. E in definitiva della sua identità. Come se si fosse compiuto quanto minacciò il presidente del comitato di liberazione della Croazia Vladimiro Nazor, in un lontano comizio del 1944: «L’Italia aveva ingrandito e abbellito Zara non per amore, ma per calcoli politici. Spazzeremo dal nostro terreno le pietre della torre nemica distrutta e le getteremo nel mare profondo dell’oblio. Al posto di Zara distrutta sorgerà una nuova Zadar che sarà la nostra vedetta nell’Adriatico».
La Calle Larga, l’antico cardo della Jadera voluta da Cesare Augusto, è stata corretta: Kalelarga. E per trovare nomi italiani devi andare al vecchio cimitero. Del quale si prende cura il Madrinato Dalmatico. Come ha scritto Ottavio Missoni, a lungo sindaco degli zaratini in esilio, «Zara forse esiste ormai solo nel cuore e nel disperato amore dei suoi cittadini dispersi nel mondo».
Che senso c’è a cancellare un pezzo del proprio passato addomesticandolo su misura? Quante città vorrebbero vantarsi di avere avuto l’impronta di Venezia? Che futuro può avere un paese che «resetta» la memoria fino ad allevare ragazze graziose e gentili quali quelle che accompagnano i turisti nel tour delle Incoronate e non conoscono neppure uno dei nomi che queste isole avevano?
Eppure, come dimostra lo storico incontro avvenuto a Trieste tra il presidente italiano Giorgio Napolitano, quello sloveno Danilo Turk e quello croato Ivo Josipovic, qualcosa sta cambiando. E come ha scritto Enzo Bettiza, nato a Spalato da padre italiano e madre slava e cresciuto da una balia serba che gli riempì la testa con «i mirabolanti duelli fra Marko Kraljevic e il Turco dalle tre teste saettanti», potrebbe essere arrivato davvero il «momento di dimenticare un passato fra i più pesanti e spietati lungo le frastagliate frontiere europee».
È vero, è difficile dimenticare. Per gli slavi, che dopo averci a lungo amati (vale la pena di leggere «l’Italia agli occhi dei croati», di Zdravka Krpina) furono sottoposti a insopportabili angherie nazionaliste sotto il ventennio mussoliniano. E più ancora per noi. Buttati fuori dall’Istria, dal Quarnero e dalla Dalmazia in 350mila, stando alle cifre di padre Flaminio Rocchi, autore del libro sull’esodo considerato a torto o a ragione dagli esuli una specie di Vangelo. Sottoposti nelle fasi finali del conflitto e nei primi anni del dopoguerra a vendette feroci culminate nell’omicidio di migliaia di persone. Annientati nello stesso diritto di ricordare il peso della cultura e dell’arte veneziane e italiane in luoghi che si chiamavano Cittanova, Albona, Rovigno, Capodistria, Umago…
Gianni Duiella, ottantadue anni, «zaratino da mezzo millennio», se li ricorda bene quegli anni di lacerazione, quando la sua famiglia si spaccò tra quelli che poterono scegliere di abbandonare tutto e andare in Italia e quelli che restarono, come lui: «Furono tantissimi, gli italiani fatti sparire. Senza un processo. Certo, qui non ci sono le foibe e i partigiani comunisti hanno dovuto arrangiarsi. Gli attaccavano una pietra al collo e li buttavano in mare». Come capitò a Nicolò Luxardo, il titolare della celeberrima fabbrica di Maraschino affogato nelle acque dell’isola di Selve con la moglie Bianca. Quanti furono, quei nostri connazionali assassinati a Zara non è chiaro. Duiella pensa a trecento. Coen «forse cinquecento». Flaminio Rocchi scrive di novecento.
Eppure, gli stessi zaratini esuli come Ottavio Missoni, Lucio Toth, Giorgio Varisco, vorrebbero recuperare una volta per tutte un rapporto decente e rispettoso con gli zaratini croati di oggi: «Non possiamo rinfacciarci i rispettivi torti per secoli, non ha senso. Dobbiamo guardare avanti. Per il bene dei nostri nipoti. Per il bene della nostra Zara». Sia chiaro: nulla va cancellato, perché la memoria aiuta a capire gli errori per non ripeterli. Ma, anche se lo stesso Napolitano ha riconosciuto che ci fu «un disegno annessionistico slavo che prevalse innanzitutto nel trattato di pace del 1947 e che assunse i sinistri contorni di una pulizia etnica», occorre andare oltre.
Anche perché, come ha ricordato Paolo Mieli ricostruendo attraverso il libro di Paolo Simoncelli «Zara. Due e più facce di una medaglia», dedicato ai retroscena della mancata assegnazione della medaglia d’oro al Gonfalone della città per i bombardamenti alleati, i torti non sono tutti da una parte sola. Basti ricordare l’infinito e offensivo tormentone dei risarcimenti agli esuli.
Qual è il nocciolo? Che i beni requisiti dai comunisti dopo la conquista del potere da parte del maresciallo Tito, una volta schiantatasi la Repubblica popolare jugoslava, sono stati restituiti ai vecchi proprietari. Ovvio: era dura, per la nuova Slovenia e la nuova Croazia decise a entrare in Europa sventolando principi liberali, tenere i beni nazionalizzati. Gli unici a non aver nulla sono stati i nostri esuli. Scappati clandestinamente (c’è chi remò da Umago a Bibione) o costretti ad andarsene firmando la rinuncia a tutto.
Prendiamo la storia della famiglia Luxardo. La loro fabbrica era forse il maggiore stabilimento dalmata. L’arrivo delle truppe di Tito cancellò tutto. I due fratelli maggiori, Pietro e Nicolò Luxardo, come abbiamo detto, furono uccisi. La fabbrica distrutta dai bombardamenti. Sopravvisse solo il Maraschino, un liquore famosissimo fatto con le ciliegie marasche. Ma a Torreglia, in provincia di Padova, dove la famiglia era scappata.
Sgretolata la Jugoslavia, la fabbrica finì nelle mani di un austriaco di origini slave , ma non funzionò. Tanto che si arrivò a distribuire le azioni della «Maraska» ai dipendenti. Racconta Franco Luxardo: «A un certo punto ci arrivò un messaggio in codice. Una specie di invito a riprendere in mano la situazione. Ma era impraticabile. Intanto per la difficoltà di rintracciare tutte le azioni sparpagliate. Poi per problemi oggettivi. Producevamo più noi con trenta dipendenti che loro con 250».
«Ricompriamoci l’Istria e la Dalmazia!», incitavano anni fa, dopo lo sgretolamento jugoslavo, alcuni nazionalisti triestini. Le cose, in realtà, sono andate diversamente. Anche per le vecchie ferite rimaste aperte. Fra il 1993 e il 2009 sono arrivati in Croazia investimenti esteri per 21 miliardi 434 milioni di euro. Un mare di soldi: quasi 5 mila euro per ogni cittadino croato. Peccato che quelli italiani siano stati appena il 4,6% del totale: 989 milioni. Una percentuale trascurabile non soltanto rispetto al volume di risorse arrivate dall’Austria (6,1 miliardi, pari al 28,6% del totale), ma anche nei confronti degli investimenti olandesi (3,3 miliardi, il 15,4%), tedeschi (il 12,6%), ungheresi (quasi il 10%), francesi (6,3%) e addirittura lussemburghesi (5,4%). Nei primi tre mesi del 2009, nonostante la congiuntura economica croata sia pessima, le somme investite da italiani sono precipitate all’1,4%.
Di più: il 67% dei nostri investimenti è dovuto a quattro acquisizioni bancarie: Unicredit ha comprato la Zagrebacka banka, Intesa San Paolo la Privredna banka, Veneto banca la Gospodarsko kreditna banka e il Banco popolare Verona e Novara la Banca Sonic. Per il resto, briciole. E soprattutto «Zero a Zara». Nell’elenco dei 56 «principali operatori italiani presenti in Croazia» stilato dall’Ice a fine settembre 2009 non ce n’era nemmeno uno con sede nella città dalmata.
Gli esuli istriani e dalmati sono stati scottati due volte. La prima quando gli jugoslavi li hanno cacciati. La seconda quando dovevano essere indennizzati dallo Stato italiano: una vicenda allucinante, che va avanti dalla fine degli anni Quaranta senza che i profughi, secondo la stima di Lucio Toth, animatore dell’Associazione nazionale Venezia Giulia e Dalmazia, abbiano avuto neppure il 20% di quanto lasciato a Tito.
Cornuti e mazziati. Proprio dalla amatissima Italia. In oltre mezzo secolo, infatti, due accordi internazionali (nel 1954 e nel 1983) hanno stabilito il principio che gli immobili e le aziende di proprietà italiana rimasti «di là» erano il prezzo che il nostro Paese doveva pagare per i danni di guerra. Gli esuli, a loro volta, sarebbero stati rimborsati dallo Stato italiano.
L’accordo del 1983 fissava inoltre a carico di Belgrado un conguaglio di 110 milioni di dollari, da pagare in 13 rate a partire dal primo gennaio 1993: a quella data la Jugoslavia non c’era più. Da allora avrebbero dovuto far fronte all’obbligo la Croazia e la Slovenia. E parte di quella somma è stata in effetti depositata, ma non è mai stata utilizzata: le associazioni degli esuli si sono sempre opposte, in mancanza di una soluzione definitiva. Tanto più che quei 110 milioni di dollari, secondo i calcoli, non avrebbero rappresentato che briciole. Come quelle arrivate finora.
L’Italia aveva cominciato a risarcire gli esuli nel ‘49, prima ancora dell’accordo del ‘54. Ma col contagocce. Tranne eccezioni. Come l’indennizzo di 102 miliardi di lire (valuta del 1993) ai pronipoti italiani di un generale austro-ungarico: il principe Alfredo Candidus Ferdinand von Windisch Graetz, protagonista nel 1848 della repressione della rivolta di Vienna. I suoi eredi avevano lasciato nei territori ex-italiani proprietà sterminate: 11 castelli e un’impresa con 3 mila dipendenti. EMariano Hugo, grazie al rimborso, sarebbe diventato il principale azionista privato del Banco di Napoli.
Di legge in legge si è arrivati al 2001. Quando la legge stabilì che i risarcimenti sarebbero dovuti avvenire in base ai nuovi coefficienti di rivalutazione variabili secondo il valore nominale attribuibile ai beni nel 1938. Coefficienti, però, ancora ridicoli. Basta dire che i valori fino a 100 mila lire si sarebbero dovuti moltiplicare per 350. E che il parametro sarebbe stato via via ridotto al crescere dell’importo, fermandosi ad appena dieci volte per le somme superiori a 5 milioni di lire del 1938. Un’idea di quanto fosse sballato e ingiusto quel sistema? Secondo le tabelle Istat, una lira del 1938 valeva nel 2001 qualcosa come 1.377 lire. Quattro volte più del coefficiente massimo. Inutile dire che il tormentone delle pratiche ancora aperte, 11.608, non si è mai chiuso.
Anche perché da anni le associazioni degli esuli chiedono che vengano applicati parametri più realistici. Per esempio quello per «il ripristino di edifici privati distrutti dagli eventi bellici» stabilito annualmente dal ministero delle Infrastrutture secondo una legge del 1966. Ora il moltiplicatore, riferito in questo caso al 1940, sarebbe superiore a 4.800: oltre due volte e mezzo la rivalutazione monetaria Istat. Il che porterebbe a una stima complessiva di circa 5miliardi di euro. Impossibile. Senza arrivare a tanto, è stato calcolato che un indennizzo equo non dovrebbe essere comunque inferiore a 2 miliardi di euro. Ma dove trovarli?
E’ centrale, la questione di soldi. Anche sotto il profilo culturale. Lo prova l’annosa vicenda del tentativo di fare rinascere a Zara, quel pezzo d’Italia che non è più Italia, un asilo di lingua italiana. Sono anni che il progetto va faticosissimamente avanti. E anni che si impantana quando ormai sembra in dirittura d’arrivo.
Zagabria sarebbe favorevole. Anche perché è interesse di tutti costruire una nuova Europa dove finalmente vengano accantonati i rancori. Il comune di Zara, per quanto se ne sa, è un po’ più diffidente. Perché, dopo il grande esodo, i morti sotto le macerie e le decimazioni operate dai partigiani titini, persiste un certo nazionalismo riottoso a riaprire un capitolo chiuso. Perché gli italiani che erano l’85% della popolazione di un tempo si sono via via ridotti ad essere, in una città gonfiatasi da venti a oltre centomila abitanti, una piccola minoranza, pari a mezzo migliaio di persone iscritte alla comunità di cui soltanto un centinaio registrate come di nazionalità italiana. Perché infine anche in Croazia stanno tagliando finanziamenti alle scuole e si sa com’è la politica: come fai a dir di sì agli italiani se già i croati non trovano posto negli asili per i loro bambini?
Fatto sta che il calvario di illusioni e delusioni sta stremando la stessa Unione degli italiani. Facendo nascere dolorose spaccature intestine tra gli istriani e i dalmati. I primi, attraverso il presidente Maurizio Tremul, dicono che questo «è un passaggio così importante che occorre partire col piede giusto: questo asilo deve essere pubblico. Certo, il comune di Zara potrebbe dare un contributo, sulla carta, anche a una struttura privata. Lo prevede la legge. Ma domani? Possiamo noi farci carico del rischio che domani, a fronte di pochissimi alunni, il comune non cambi idea? La verità è che i bambini che chiedevano di essere iscritti, alla fine, erano troppo pochi.» Gli zaratini, per bocca di Rina Villani, dicono che no, non si può più aspettare: «Ci sono già cento bambini che seguono i corsi di italiano alle elementari ed è fondamentale incoraggiare questa tendenza aprendo questo benedetto asilo anche a costo di farlo privato, a spese nostre, accettando che il comune paghi solo gli insegnanti. C’erano già i soldi, per comprare il "nostro" asilo. E invece, rinvia rinvia, hanno preferito usarli per fare un ospizio a Pola…».
Sullo sfondo, al di là del sogno dell’asilo, c’è qualcosa di più. E cioè la sofferenza degli italiani zaratini che, nel momento in cui cercano di rialzare la testa, si sentono, come sospira Gaetano Coen, «lontani non solo da Roma ma anche dall’Istria».