di BRUNO LUBIS su Il Piccolo del 29 agosto 2010, in occasione del cinquantennale delle Olimpiadi di Roma 1960
Le ultime Olimpiadi dal volto umano, lo sfondo più classico che i Giochi moderni hanno mai avuto: le definizioni che meglio si addicono a Roma 1960. Si gareggiava nella Basilica di Massenzio, nelle Terme di Caracalla, Abebe Bikila correva scalzo come gli antichi pastori sulle selci millenarie della via Appia dove le rovine della Roma dei Cesari mostra l’antichità della gloria che fu.
L’Italia viveva l’inizio del boom economico dopo la ricostruzione, finita l’era fascista e l’impero di cartapesta con una monarchia fellona. Gregory Peck e Audrey Hepburn scorazzavano per i rioni di Roma in sella a una Vespa. Vespe a sciami seguiranno il trionfale ritorno a Trieste di Nino Benvenuti – ma di lui parleremo un poco alla volta, nel ricordo dei Giochi olimpici che sono stati lo spartiacque tra classico e moderno, tra umano e tecnologico, tra pista e pedane di granuli rossastri di mattoni triturati e corsie in tartan che restituivano, più forte, la spinta dei piedi.
L’Italia schierò una falange di talenti come mai era capitato prima (nè potè succedere poi). I fratelli D’Inzeo coi loro cavalli, Faggin e Gaiardoni in bici, la pallacanestro azzurra non si fece massacrare dai mostri americani dove Lucas, Jerry West e Oscar Robertson spopolarono ma ebbero avversari alla loro altezza con Pieri, Calebotta, Riminucci, Lombardi e Gamba. Il calcio italiano dovette lasciare via libera alla Jugoslavia dei Galic, Vidinic, Jusufi in una semifinale pareggiata 1-1. Decise la monetine e passarono i vicini della Repubblica federativa che poi vinsero l’oro. Ma l’Italia schierava Tumburus, Rossano, Trapattoni, Bulgarelli, Rivera: gente che avrebbe disegnato un po’ della storia del pallone.
Roma voleva anche dire specialmente atletica leggera. L’ultima Olimpiade dove a vincere le due gare veloci tra gli uomini furono due europei, Armin Hary nei 100 (il primo a correre in 10’’ netti) e Livio Berruti nei 200 in 20’’5. Anche a Mosca 1980 vinsero due europei Wells e Mennea, ma non c’erano gli americani. Alla fine della curva, davanti a Berruti che volava elegante in quarta corsia, si alzò in aria una squadriglia di colombi quasi per non disturbare l’aria che si apriva alle falcate del torinese.
Tra le donne la divina Wilma Rudolph dominava la velocità e la staffetta. Tra Berruti e la Rudolph si dice sia nato un sentimento che non ebbe tempo di diventare passione, una fiaba in bianco e nero che avrebbe fatto rizzare i capelli a certa America che ancora segregava uomini e donne di pelle scura, che avrebbe ammazzato qualche anno dopo Martin Luther King solo perchè chiedeva pari diritti. Quella love story fu decisa dalla timidezza dello studente italiano e dalla goffaggine dell’americana del Sud, troppo inibita dalla sua condizione di negra.
Col pugilato l’Italia ebbe sette medaglie, tre d’oro con De Piccoli nei massimi, Musso nei piuma, Nino Benvenuti nei welter. Argento per Lopopolo e Bossi; bronzo con Saraudi.
Nino era l’astro nascente della specialità e infatti divenne poi campione d’Europa e mondiale dei medi, battendo prima lo spagnolo Folledo e poi Griffith. Merita di soffermarsi sulla vicenda del pugile istriano che avrebbe potuto giocarsela già quattro anni prima a Melbourne ma era considerato troppo acerbo. A Roma Nino dovette accettare di gareggiare sotto i 67 chili: era dura per una ragazzo di 178 centimetri, secco di suo come un baccalà e con l’appetito di chi dedica molte ore della giornata a una fatica spossante come fare a cazzotti. Benvenuti ricorda: «Non potevo farmi battere dalla bilancia, anche se avevo fame. Ricordo che masticavo la bistecca, la succhiavo ma non mandavo giù il boccone. Un sacrificio duro ma che soddisfazione poi andare sul ring e battere gli avversari. Ricordo la finale contro il sovietico Rudnjak. Tipo tosto quello là. Per mia fortuna lo presi sul tempo nel 2° round col gancio sinistro e lui andò giù. Fu contato, si alzò e cominciò a pressarmi come un demonio. Mi era difficile tenerlo lontano. Vinsi ai punti, con merito, ma se non lo mettevo ko chissà come sarebbe finita».
Quel gancio sinistro di Benvenuti, provvidenziale anche nelle sfide continentali e mondiali: Mazzinghi a San Siro si spense sul pugno mancino di Benvenuti, con Rodriguez la sfida sembra in mano all’americano che colpisce per dieci riprese l’italiano ma subisce un solo pugno degno di questo nome, il gancio sinistro, e finisce ko.
«Il titolo olimpico nessuno me lo può togliere, resto campione olimpico. Mentre sono un ex campione mondiale – dice Benvenuti – e perciò l’oro di Roma è il titolo che ritengo più prezioso».
Al villaggio olimpico si viveva benissimo, non c’era il divismo degli ultimi anni. Si incontravano atleti di ogni paese, religione e colore di pelle; con tutti era possibile scambiare qualche parole, un gesto di fraternità; l’avversario si doveva e poteva superare ma non distruggere. Viaggiare era ancora una bella avventura, di soldi ne giravano ancora pochi, la semplicità comandava sempre sulla fama sportiva. Così, girovagando per il villaggio olimpico,, nell’eterna attesa del prossimo incontro, Benvenuti conobbe un ragazzino negro americano, di nome Cassius Clay, un mediomassimo veloce e fantasioso che sarebbe diventato uno dei più grandi pugili all time. «Con Cassius, che poi volle chiamarsi Muhammad Ali – ricorda Benvenuti – ci siamo rivisti in America varie volte, ci siamo parlati e mi onoro di essere un suo amico».
Benvenuti tornò a Trieste e arrivò in città passando in un corridoio di gente che lo aspettava da Barcola fino in via Carducci. Lui su una macchina e uno sciame di Vespe e Lambrette dietro. Più che ’Vacanze romane’ a Trieste la Vespa e la Lambretta faceva vacanze istriane, con la morosa dietro e la merenda impacchettata nello sportello laterale. La gioventù seguiva uno di loro che aveva trovato fama e l’oro olimpico, non c’era invidia ma sincera ammirazione. La stessa che ancora oggi si nutre per l’ex campione che ha scelto di vivere a Roma.