di PREDRAG MATVEJEVIC
Di solito non scrivo in italiano questo tipo di testi. Non mi sento capace di scriverli bene in una lingua che capisco, parlo e amo, ma senza essere sicuro di me stesso proprio quando la scrivo. Faccio tradurre le mie righe dal croato o dal francese. Ma con Fulvio Tomizza, che è morto nel 1999, avevo durante quasi trent’anni un dialogo in italiano e, adesso, mi sembrerebbe di tradirlo se non adoperassi la lingua in cui abbiamo comunicato. Mi perdoni il lettore di questo testo se faccio qualche costruzione un po’ goffa. Tomizza me lo perdonava…
Incontrai per la prima volta Fulvio Tomizza a Belgrado dove lui studiava negli anni Cinquanta del secolo alle nostre spalle. Lui parlava male il croato o il serbo (con un po’ di sloveno) ed io ancora peggio l’italiano che avevo cominciato a studiare, figuratevi, a Sarajevo, presso l’ottima italianista italo-istriana Gloria Rabac, che ci ha lasciato poco tempo fa’. Parlavo al giovane Fulvio della mia ammirazione per il neorealismo nel cinema italiano, tanto diverso dell’arte “social-realista” che veniva in quei tempi dall’Unione Sovietica stalinizzata. Una complicità si creò nei nostri primi incontri, mai tradita. Eravamo quasi coetanei.
Non so quante volte ci siamo incontrati dopo: a Zagabria dove io presentavo i suoi libri, a Trieste dove lui presentò, nel Caffè Tommaseo con Claudio Magris, il mio “Breviario mediterraneo”, una volta anche a Lubiana, più di una a Materada. Quando emigrai nel 1991, non volendo schierarmi con nessuno in una guerra fratricida, mi trovai in una posizione “fra asilo ed esilio”. Tomizza mi diede tanti consigli utili. Continuammo anche il discorso sui temi iniziati molto prima , con i suoi libri e atteggiamenti: “Destino di frontiera”, “Fughe incrociate”, “Il sogno dalmata”, “La miglior vita”, “Alle spalle di Trieste”, “L’ereditiera veneziana”, “Cernobyl” e “Quando Dio uscì di chiesa”, “Nel chiaro della notte”, “L’albero dei sogni” e poi ancora, sempre e di nuovo, “Materada”, luogo d’asilo e d’esilio, che protegge e allontana ad un tempo, ove si ritrova nella solitudine e nell’isolamento una specie di libertà.
Ogni incontro con lui rimase non solo nei miei ricordi, ma pure in qualche parte più profonda di me, laddove i ricordi non giungono. Fulvio non parlava molto e sapeva ascoltare. La sua voce era sobria e sorvegliata. Sapeva separare l’importante dall’irrilevante. La sua parola non era mai né astiosa né risentita. Capiva molto di più di quanto agli altri pareva che capisse. I suoi gesti erano discreti, il comportamento nobile, lo sguardo dolce.
Mi pare di dovere a Fulvio qualcosa difficilmente restituibile, oramai anche troppo tardivo. Tutti e due riflettevamo sui confini – fantasticavamo del mondo che un giorno non li avrà più. Le frontiere di solito dividono. Tomizza ha imperniato la sua opera proprio sui confini e l’ha fondata sulle frontiere. Ha dimostrato che le une e le altre possono pure avvicinare e congiungere.
Ci telefonavamo molto spesso cercando di non perderci di vista. Abbiamo sofferto insieme lo sfacelo della Jugoslavia, paese che ci sembrava migliore delle “democrature” che l’hanno sostituito (un termine che io inventai all’epoca). Non ci piacevano i nuovi-vecchi “nazionalismi fascistoidi”, apparsi sulla scena politica e culturale. I suoi consigli mi hanno tante volte orientato durante i miei tredici anni trascorsi in Italia, malgrado il fatto che lui non era e non voleva essere un “consigliere” e che io fingevo di non avere nessun bisogno di consigli.
Forse anche il destino ci aveva avvicinati l’uno all’altro: siamo tutti e due più o meno meticci, lui italo-slavo-istriano (ma italiano in primo luogo), io croato, russo, pro-jugoslavo, protetto nell’emigrazione dalla “cittadinanza italiana”. Abbiamo sentito il peso dello stesso periodo politico e culturale : in cui la cosiddetta “cultura nazionale” diventa spesso un’“ideologia della nazione”; in cui un discorso letterario e critico si colloca fra “tradimento e oltraggio” – voglio dire che ogni parola critica, rivolta alla propria nazione, viene considerata come un tradimento, quella che concerne la nazione vicina diventa oltraggio. «Quanto sei pagato per sostenere loro?» – ti chiedono attaccandoti. Rispondevamo l’uno e l’altro, non senza un po’ di cinismo: «Magari!».
Le frontiere e i confini erano la nostra ossessione comune. Poco tempo prima della sua morte (nel 1999), pensavamo di fare un libro o un saggio insieme su questo tema, con qualche punto di partenza collegato con le nostre esperienze: «I vecchi particolarismi potrebbero facilmente ridisegnare le frontiere interne dell’Europa incoraggiati da tanti tipi di nazionalismo, di regionalismo, di localismo, di ”devoluzionismo”( tipo Lega lombarda) e da altre tendenze simili che si manifestano con arroganza e alle quali ogni idea di convergenza o di sintesi rimane estranea. Si tratta di ripensare, di fronte a queste tendenze irrazionali verso la divisione e la divergenza, ciò che si potrebbe chiamare una nuova architettura della frontiera o, perché no, un’etica del confine. La cultura avrebbe sicuramente da dire le sue parole, se non fosse così messa ai margini nell’elaborazione del progetto politico europeo (e non solo europeo), chiamata in soccorso molto raramente o solo per liberarsi la coscienza».
Non so se appartengono più a Fulvio o a me stesso queste idee scambiate fra di noi; forse le parole scritte e maldestre in italiano sono le mie, ma il loro significato, e per sicuro il nostro, comune.
Mi ricordo di alcune passeggiate che mi fecero conoscere un po’ meglio Trieste e mi aiutarono a scrivere un breve ritratto di questa città, a me così vicina. Guarda, disse (cerco di riassumerlo), questa è una Trieste che vive con il suo mito senza tener conto delle contraddizioni che scaturiscono da questa simbiosi, oppure rassegnandosi ad esse. Si abbandona all’attesa senza amarezza: sembra talvolta che aspetti ciò che infatti è già successo e che, in una forma simile, non può ripetersi. Tale atteggiamento evita i rischi, si accontenta della routine. L’immagine del passato, che nel frattempo è sparita dallo specchio, favorisce illusioni: sostituisce spesso la realtà con le rappresentazioni della realtà stessa… Da un’epoca all’altra “Le campane di San Giusto” venivano cantate in modi diversi. I triestini li riconoscono una volta con emozione, un’altra con un sorriso.
Parlando in questo modo nessuno di noi nascondeva quanto questa città valeva la pena di esser meglio conosciuta. E non solo Trieste, ma anche tutta l’Istria. Nel 1974 Tomizza scrisse una breve opera intitolata “Dove tornare”. Descrisse la volontà, la nostalgia e il godimento di tornare nella sua terra natia, rifiutando ogni idea di un irredentismo irrazionale e vendicativo. Il testo fu comunque mal inteso nell’ex Jugoslavia e attaccato da alcuni “commissari culturali”. Ma si trovarono anche degli amici che presero la sua difesa. Scrivo queste righe proprio nel momento in cui i cittadini italiani, e non solo della zona di frontiera che aveva tanto sofferto, possono riacquisire o comprare le case nell’Istria, croata e slovena, nella Dalmazia e altrove.
Dovremmo dire fra l’altro: grazie, Fulvio!