LETTERE
Egregio Mazzaroli, ho letto ne "L'Arena" di ottobre scorso la sua nota suppletiva a proposito del ricorrente tema esuli/rimasti. Ha lamentato che nessuno fra soci e lettori abbia ritenuto utile riallacciarsi al precedente editoriale di agosto per proferire, di rimando, alcunché.
Silenzio qualificato avvilente.
Non sono socio (appartengo alla consorteria dei Dalmati), ma lettore-abbonato sì. Ed in tale veste, ohibò, dirò la mia, che, in gran parte, combacia coi suoi orientamenti. Vero e pregnante, in particolare, l'assunto: «Quel poco d'italianità che ancora rimane nelle nostre terre, oltre che alle pietre, è dovuto anche alla loro presenza. È, quindi, opportuno che il rapporto con i rimasti vada perseguito». Vi sono, aggiungerò, un paio di sfaccettature del benedetto rapporto che ancora disorientano. Alessandro Damiani (padre), che anni fa scriveva sulla stampa dell'EDIT, le chiamerebbe aporìe.
Una prima.
Vicende, ruolo, status di noialtri, negli Appennini ed altrove disseminati, sembrano impallidire di fronte alla dignità che essi, rimasti, conferiscono alla loro condizione di gente pervicacemente e fieramente abbarbicata alla terra natia. Protesa a difenderne le vestigia italiane, unica erede di tensioni e passioni che, ieri, nei petti veementi fremerono e, oggi, stemperate e misurate vibrano. Come conviensi (!), dall'angolazione loro. I disegni celesti hanno risparmiato agli odierni cinquantenni/sessantenni, "capataz" Tre-mul e Radin inclusi, il peso di ricordi su accadimenti che contraddistinsero l'habitat "nostro" nei due lustri successivi alla fine del Secondo Conflitto. Circostanza che, di per sé, dovrebbe farli meditare prima di lasciarsi andare, talvolta, in disinvolte esternazioni.
Una seconda.
Parecchi fra i rimasti sono titolari di cittadinanza italiana.
Nessuno, tra loro, vidi e vedo, udii ed odo proferire nella stampa dell'EDIT, animato da irrefrenabile impeto, il sintagma nominale "Patria Italia" (anche se putativa). Nemmeno di straforo. Ripiegano tutti, consapevolmente ed elegantemente, sul concetto-surrogato, più "soft", di "Nazione Madre", che imbracciano ed oppongono ad ignari ed improvvidi, facendosi vindici del proprio onore (se e quando) offeso.
Dovrebbe forse illuminare, il detto loro misurato sentire, chi, cedendo all'ispirazione dei precordi, volle, con ostinatezza pari ed antitetica, aggrapparsi alle sottane d'Italia, per continuare a invocarla come Patria?
Non rimango sordo all'esortazione cristiana del
Manzoni: «Discendi Amor; negli animi / l'ire superbe attuta…». Ma i fatti restano fatti, cinquanta o sessant'anni dopo, paia o non paia a Tremul e Radin, i buoni Samaritani. Anch'essi, oltreché noi, dovrebbero trarre giovamento dalla rilettura dell'Ecclesiaste (7, 20):
«Non c'è infatti sulla terra un uomo così giusto che faccia solo il bene e non pecchi».
Una terza.
Io, esule Zaratino, a differenza di Lei, non pretendo che i miei concittadini, residenti sull'altra sponda dell'Adriatico, imbraccino nella ricorrenza dei Morti il Tricolore per onorare, al Famedio del mio Cimitero, chi poté dire morendo: Alma terra natia / la vita che mi desti ecco ti rendo. Torvi sono ancora occhi e fronte del dirimpettaio che si appresta a divenire in breve membro dell'U.E.. Ma mi attendo che, in luoghi più angusti (sedi delle Comunità) e nel corso di manifestazioni ufficiali, alla presenza di Ambasciatori e Consoli d'Italia, intonino fieri il Fratelli d'Italia ed il pianto faccia groppo in gola. Cordialità.
Walter Matulich (Brescia)