« Ve prego no ste venir in redazion… se incontremo drio le machinete del cafè… che za i disi che voi xe de destra… Sei ve vedi con mi xe finidi per sempre». Era la metà degli anni ’80 e ogni volta che andavamo a trovarlo nella Mondadori pre-berlusconiana, feudo di giornalisti con l’eskimo sulle spalle e Marx nel cuore, Antonio Pitamitz ci accoglieva con quelle parole bisbigliate nella cornetta mentre ci annunciavamo dal centralino della portineria. La reputazione se l’era giocata a metà del 1983, pubblicando sulle pagine del mensile Storia Illustrata la prima inchiesta seria e documentata sulle foibe e sugli eccidi commessi da partigiani italiani e titini sul fronte orientale. Rompere quel tabù gli costò caro. Raccontare la verità su italiani, croati e sloveni precipitati negli abissi carsici, spiegare che tra quei morti non c’erano solo fascisti, ma anche innocenti e partigiani colpevoli di non assecondare la linea filo-jugoslava di Palmiro Togliatti rappresentava, allora, una colpa imperdonabile. La gogna fu immediata. Amici e sostenitori dell’unica «Verità», quella di sinistra, lo seppellirono sotto una valanga di lettere, denunce e comunicati accusandolo di aver esibito un «intreccio di verità e notizie infondate, o imprecise, o prese di getto, senza cautela, da fonti fasciste». Una gogna da cui all’epoca era impossibile liberarsi. Da quel momento colleghi e storici gli voltarono le spalle bollandolo come «amico dei fascisti».
Un’accusa riemersa anche ultimamente tra i siti del peggior revisionismo comunista pronti non a elogiarlo, ma a denigrarlo e infamarlo per esser stato il primo a svelare e rievocare la tragedia di Norma Cossetto, la 23enne studentessa italiana di Visinada rapita, seviziata e gettata in una foiba dai titini nell’ottobre 1943. Lui, dalmata purosangue, figlio di una Zara dove aveva parlato l’italiano e il croato, ma aveva anche vissuto il dramma della pulizia etnica per mano delle bande titine, fascista non era mai stato. Casomai era stato comunista, ma aveva vissuto sulla propria pelle le storture di quel sistema, aveva conosciuto la tragedia dell’esodo, aveva studiato i ripensamenti di Milovan Gilas e, come lui, aveva voltato le spalle a quell’ideologia. Ma del resto di cos’altro avrebbero potuto accusarlo se non di essere «amico dei fascisti»? Le sue ricerche basate su documenti inediti, tirati fuori, a volte, dagli stessi archivi jugoslavi erano ineccepibili. Non si potevano liquidare come un’invenzione. Andavano, però, screditati e delegittimati per evitargli di far luce su un buco nero della storia che nessuno oserà scoperchiare prima della visita di Francesco Cossiga alla foiba di Basovizza del novembre 1991. Antonio in cuor suo ne soffriva, ma fingeva di non curarsene. «Iabenti», «maledetti» sussurrava in quel suo croato imparato da bimbo giocando sul lungomare di Zara. Antonio, cronista ante litteram della tragedia delle foibe, se n’è andato a 85 anni, dimenticato dai più e in silenzio, mercoledì scorso. Con il senno di poi l’unica sua colpa è stata quella di aver sviscerato troppo presto una verità tanto lacerante incassandone molte conseguenze e ben pochi meriti. Vittima anche lui – come disse Cossiga dei martiri delle foibe – di «quella pseudocultura che ci è stata propinata per 40 anni in modo egemonico come cultura democratica».
Fausto Biloslavo – Gian Micalessin
Fonte: Il Giornale – 14/01/2021