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Antonielli: avere l’accento giusto (corriereitaliano.com 26 ott)

Se mi si dovesse chiedere la definizione della felicità, direi senza esitare che la felicità è avere l'accento giusto. Per accento intendo l'intonazione, la pronuncia, l'inflessione, la cadenza, il modo di far uscire le parole dalle misteriose fabbriche di suoni che attraversano il nostro corpo dal diaframma in su fino al naso. Io ebbi l'accento giusto fino all'età di sei anni. Parlavo l'istriano, ossia il dialetto della mia terra natale.

Ma sorse un problema in prima elementare, a Napoli, dove finimmo col trovarci, da profughi. A scuola occorreva parlare l'italiano, e l'istriano – il “pisinoto” –  che parlavo in casa ne ostacolava l'apprendimento rapido, oltre a dare al mio italiano un accento sbagliato, anche perché così diverso dall'accento napoletano degli altri alunni. Fu così  che i miei genitori mi costrinsero con le lusinghe e con le ammonizioni a parlare con loro solo l'italiano e mai più il dialetto. Ciò non valse comunque a fare del mio italiano una lingua senza accento. Paradossalmente, la mia permanenza a Napoli, i troppi film di Alberto Sordi da me visti e il dialetto parlato in famiglia dai miei genitori tra loro finirono col dare al mio italiano un misto  d'inflessioni dialettali. Così, ancora oggi mi sento dire, quando incontro per la prima volta un istriano: “Ah, anche lei è istriano…” E subito dopo: “Non si direbbe dal suo accento però…” Il tono è sospettoso e quasi accusatorio. Si capisce che costui pensa: “Con una pronuncia simile questo qui è un istriano fasullo…”

Allora io racconto che solo la notte prima ho sognato la mia terra natale, alla quale gli dico di essere dolorosamente legato, e spiego che l'accento sbagliato che mi ritrovo è un'ingiustizia che continua a farmi soffrire. Fatica vana. Nell'interlocutore permane il sospetto sulla mia vera identità. E c'è da capirlo. Dopo tutto nessuno riuscirebbe ad immaginare un romano verace che parlasse con una pronuncia milanese, o un torinese da diverse generazioni che avesse l'accento barese.

Ma non è certo colpa mia se la liberazione, celebrata ogni anno in Italia in pompa magna, ha liberato l'Italia anche dall'incomoda presenza della sua appendice nord-orientale disperdendo i suoi abitanti in altre aree linguistiche… A Napoli trovavano che avevo l'accento foresto. “Si sente che siete del Nord”, mi dicevano. Andando al Nord, mi sentii ammonire: “Ma come si sente che lei viene dal Sud!” Al mio arrivo a Montréal, un torinese, che si considerava favorito dal suo accento piemontese, fece questa diagnosi su di me: “Non so se riuscirai mai a parlare il francese con il tuo accento napoletano…” L'accento napoletano come impedimento all'apprendimento di una lingua straniera: ecco un soggetto di studio che meriterebbe un contributo della Cassa per il Mezzogiorno…

E fu proprio in Canada, nel Québec, che la dolorosa realtà della pronuncia non ortodossa m' investì come un treno senza freni. Infatti, mi trovai confrontato ad una lingua francese parlata con una pronuncia particolarissima e, diciamolo pure, orribile. Ma coloro che non avevano questa cacofonica pronuncia – gli immigrati come me, ad esempio – venivano apostrofati dai franco-quebecchesi con quella loro frasetta esprimente la diffidenza e l'estraneità, che mi è stata rivolta da allora tante ma tante volte: “Vous avez un accent!…”

Claudio Antonelli (Montréal)

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