Nasce dalla collaborazione tra un giornalista, Jan Bernas, autore del fortunato saggio “Ci chiamavano fascisti. Eravamo italiani” (Mursia 2010, realizzato con la collaborazione della Sede nazionale ANVGD) e Simone Cristicchi, tra i più apprezzati cantautori contemporanei, uno spettacolo teatrale e musicale sul tema dell’esodo, che debutterà il 22 ottobre prossimo al teatro Stabile di Trieste, con il titolo “Magazzino 18″. Per comprendere le circostanze e le ragioni di questo inedito incontro tra due autori attivi in settori diversi della comunicazione, abbiamo intervistato entrambi rivolgendo loro alcune domande. Iniziamo con Bernas.
Bernas, Lei, giornalista di origini polacche, come e quando si è avvicinato alla storia dell’esodo giuliano-dalmato?
Sono da sempre un appassionato di storia patria. Il mio primo incontro o meglio scontro con la storia dell’esodo giuliano-dalmata l’ho avuto al Liceo. Chiesi alla mia professoressa di Storia come mai tutte quelle persone stavano lasciando la propria terra all’indomani del conflitto. Lei sprezzante mi gelò: «tutti fascisti in fuga». Ecco quella risposta mi ha lasciato una ferita aperta nel cuore per anni che sono riuscito a rimarginare solo attraverso lo studio, l’approfondimento della complessa questione del confine orientale e l’esperienza diretta maturata nei miei viaggi in Istria e in Dalmazia. Il mio libro in fondo vuole essere una risposta, credo obiettiva, a tutti i giovani che cercano la verità e che sono stufi dell’uso strumentale e politico della memoria.
La Sua origine dall’Europa dell’Est ha in qualche misura orientato il Suo interesse per quei territori orientali dell’Italia, trovatisi ad un certo momento del secolo scorso schiacciati da opposti sistemi ideologici e feroci conflitti etnici?
Ho avuto la fortuna nel corso dei miei studi all’estero di conoscere tanti amici dell’ex-Jugoslavia: Croati, Serbi, Macedoni. Loro sanno poco di questa storia e quel poco che sanno è chiaramente viziato dalla dicotomia preconcetta: italiani tutti fascisti e cattivi. Slavi solo vittime. Ho imparato a riconoscere le loro ragioni. Loro hanno compreso i soprusi subiti da esuli e rimasti ma soprattutto hanno imparato che prima del fascismo o delle foibe, c’è stata una popolazione – quella italiana – che per secoli ha plasmato culturalmente, economicamente e socialmente l’Istria, Fiume e parte della Dalmazia.
Dalle Sue ricerche e dalle Sue interviste agli esuli è nato un libro che ha avuto ottimi riscontri in termini di diffusione e di apprezzamento, “Ci chiamavano fascisti. Eravamo italiani”, edito da Mursia nel 2010. Dal punto di vista umano cosa Le è rimasta di quella indagine?
Non scorderò mai gli occhi di tutte le persone che ho intervistato. Le loro lacrime. Sia di chi ha deciso di partire esule, sia di chi invece preferì restare, scoprendosi straniero a casa propria. Mi hanno aperto la porta del loro cuore con dignità e sofferenza ma con un grande desiderio di tramandare ciò che avevano vissuto nella speranza che questa tragedia non fosse più considerata solo come la loro storia ma come la storia di tutti. Storia d’Italia.
E dal punto di vista professionale?
Il mio desiderio più grande è sempre stato quello di entrare nelle scuole. Forse proprio perché a scuola è sorto il mio interesse per questa storia. Vorrei che i giovani italiani e i giovani italiani dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia imparassero a conoscersi meglio, a riconoscersi, a sentirsi figli dello stesso popolo, anche se divisi dalla storia. Il libro resta per me uno strumento attraverso il quale ricostruire una memoria di popolo.
Come è avvenuto l’incontro con il cantautore Simone Cristicchi? E come è sorta l’idea di un progetto comune a partire dal Suo libro per giungere alla canzone d’autore?
Non ringrazierò mai abbastanza Simone Cristicchi per il coraggio e la sensibilità dimostrata nell’approcciare questa pagina di storia. In un certo senso è facile – quanto giusto e doveroso – parlare della Resistenza o della Shoah. Occuparsi di foibe, degli esuli e dei rimasti, farne uno spettacolo di teatro civile, è assai più rischioso perché purtroppo è una questione che suscita ancora oggi opposti ciechi ideologismi. Chi osa avvicinarcisi, spesso, rischia il linciaggio mediatico. Solo un animo sensibile e curioso come quello di Simone Cristicchi poteva arrischiarsi a portare a teatro questa pagina dimenticata del nostro Paese. Quando Simone mi ha contattato per dirmi che aveva letto il mio libro e partendo da questo voleva realizzare uno spettacolo teatrale, il pensiero è andato immediatamente a tutte le persone che ho incontrato in Italia e in Istria nel corso delle mie ricerche. Un piccolo dono, un atto di giustizia nei loro confronti che li ripaga in parte di tante lacrime versate. E anche per questo ringrazio Simone.
Lei ha visitato il Silos di Trieste? Quali sensazioni ne ha ricavato e cosa ha ritenuto di trasmettere a Cristicchi per coinvolgerlo in un’idea di elaborazione musicale di un’esperienza storica?
Mi rammarico di non aver ancora visitato il Silos di Trieste. Sarà l’occasione per andarci con Simone anche perché, essendo la fotografia una mia grande passione, abbiamo pensato di realizzare una mostra fotografica itinerante sul Magazzino 18 che accompagni lo spettacolo nei teatri d’Italia e in Istria dove vorremmo portare lo spettacolo a Pola e a Fiume. Un altro modo per far entrare lo spettatore, anche visivamente, nella complessa storia che Simone rappresenterà dal palco.
Simone Cristicchi è un artista poliedrico, tra i pochi rimasti in Italia a produrre e ispirare cultura piuttosto che limitarsi a sfornare merce da vendere sul mercato. Non mi stupisce quindi che abbia saputo intravedere e fare proprio lo spirito che ha animato il mio libro: rendere omaggio a tutti gli italiani dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia, siano essi esuli o rimasti, per la lezione di dignità e attaccamento alla propria terra impartita ad un’Italia che invece cinicamente si è voltata dall’altra parte per bieco opportunismo.
“Ci chiamavano fascisti. Eravamo italiani” e ancor più “Magazzino 18” nascono come opere di educazione alla memoria. Un ponte ideale tra italiani divisi dalla storia ma pronti finalmente a riconoscersi in una memoria e in un senso d’appartenenza comune.
Cristicchi: «Quartiere Giuliano Dalmata»: «Ma questo signor Giuliano Dalmata, chi era?»
Recentemente Lei è stato definito da un quotidiano nazionale uno degli «alfieri di quella “seconda generazione” di cantautori capitolini che a partire dagli anni Novanta ha segnato una svolta nella canzone d’autore». Come è arrivato a dedicare una canzone all’esodo dei giuliani e dalmati? La storia, tanto più quella di cui trattiamo, non è esattamente un tema prediletto dalla musica leggera…
Ho scoperto la storia dell’esodo grazie al libro di Jan Bernas Ci chiamavano fascisti, eravamo italiani. Lo comprai perché il titolo mi incuriosiva. Non sapevo nulla, anche perché questa è una pagina di storia che non insegnano nelle scuole. Poi, un anno fa, mentre ero alla ricerca di storie e testimonianze sulla seconda guerra mondiale, capitai a Trieste e volli visitare il magazzino 18 del porto vecchio. Appena entrato, trovandomi in mezzo a quei duemila metri cubi di masserizie abbandonate, ho provato una sensazione fortissima, ho “visto” la tragedia, e ho deciso che avrei fatto qualcosa per dare voce a quegli oggetti e ai loro proprietari dimenticati. La canzone ha avuto una lunga gestazione; soprattutto il testo, che avrei potuto scrivere in mille modi. Alla fine ho scelto di immedesimarmi nel figlio di un esule che va a cercare nel magazzino le tracce di un padre tanto amato, un padre che non è morto in una foiba, ma per via di un male sottile e permanente: la malinconia.
Nei Suoi testi scolastici di storia, le vicende del confine orientale erano chiaramente trattate?
Nei libri scolastici non ricordo che si parlasse di quelle vicende. Forse arrivammo a studiare solo l’avvento del fascismo…
Lei ha incontrato Jan Bernas, un professionista dell’informazione autore di un volume che raccoglie molte significative testimonianza di esuli giuliano-dalmati. Quali impressioni ha ricavato dalla lettura di quel libro?
Il libro di Jan l’ho letto 4 volte, ed ogni volta è stato fonte di grande stupore ed emozione mista a rabbia. Mi ha colpito perché ho rivisto il metodo di lavoro che anche io ho adoperato per «Centro di Igiene Mentale»e la mia ultima fatica «Mio nonno è morto in guerra», dove ho scritto e raccolto le testimonianze degli ultimi reduci viventi della seconda guerra mondiale. Lo stesso Jan mi ha concesso di pubblicare una delle storie del suo libro.
Leggendolo, ho avuto la sensazione di trovarmi proprio davanti alle persone che raccontavano. Ma l’impressione più forte, alla fine della lettura, è stata quella di constatare quante sfaccettature abbia l’evolversi di questa vicenda. L’esodo, i campi profughi, l’accoglienza in Italia, i monfalconesi, Goli Otok, i rimasti… E pensare che per cinque anni a Roma, nel tragitto che l’autobus 765 faceva per portarmi al Liceo, c’era una fermata. Vicino a quella fermata c’era un cartello, una specie di targa con su scritto «Quartiere Giuliano Dalmata». Ogni volta che ci passavo davanti, leggevo quel cartello, e nella mia ignoranza mi chiedevo: «Ma questo signor Giuliano Dalmata, chi era?». Meno male che non l’ho mai chiesto a nessuno… Poi negli anni mi sono reso conto di quanti ancora ignorano il senso di quel cartello. Quante persone, giovani e adulti, gente del popolo o sapientoni, si saranno fatte la mia stessa domanda?
Quando e come la conoscenza di quegli eventi si è mutata in idea di canzone, di testo e di musica? Aspettando il nuovo spettacolo teatrale, cosa ha ritenuto di dover mettere meglio e più in evidenza?
Probabilmente è stato un senso di vergogna, a spingermi a fare qualcosa. Vergogna per non aver saputo, per tanti anni. Poi, il fortissimo impatto emotivo davanti alle masserizie degli esuli, e la lettura di diversi libri dopo quello di Jan Bernas, mi hanno spinto a realizzare un monologo di teatro civile, genere che “frequento” con passione da 4 anni. Con l’aiuto prezioso di Jan, coautore del testo dello spettacolo, abbiamo lavorato sodo in quest’ultimo anno alla costruzione del racconto, e alla ricerca di una forma di narrazione, un linguaggio semplice che possa appassionare un pubblico giovane. Io interpreterò vari personaggi, tra i quali uno sprovveduto quanto ignorante archivista romano, inviato dal Ministero a fare un inventario di tutte le masserizie. Con lo spettacolo che debutterà a Trieste il prossimo ottobre, non vogliamo certo aizzare polemiche desuete, o essere accusati di faziosità o revisionismo storico. Vorremmo solo utilizzare la musica, le parole, le immagini, affinché lo spettatore esca dal teatro con una sua idea, un bagaglio di emozioni e memoria. E soprattutto, vorremmo che lo spettacolo sia il degno omaggio a tutti gli istriani fiumani e dalmati dimenticati e offesi dalla storia (in questo caso con la “s” minuscola”).
C’è qualcosa di «1947» di Endrigo nella Sua elaborazione del brano dedicato al Silos di Trieste?
Sicuramente, la cosa che accomuna i due brani, è il senso della malinconia degli esuli. Nel testo parlo di un esule che letteralmente “muore” di malinconia. E questo è stata – a mio avviso – l’altra faccia delle foibe. Quanta gente si è tolta la vita perché non poteva più vedere la propria casa, la propria terra? La canzone «1947» è un piccolo capolavoro di semplicità e poesia, che solo un grande cantautore come Endrigo poteva scrivere. Io ho avuto l’onore di poter incidere un duetto con Sergio, qualche anno prima che morisse, e tutt’ora non c’è un concerto o uno spettacolo dove non ricordi dal palco questo mio grande maestro.
Nella Sua esperienza, anche formativa, vediamo esserci stata attenzione per i temi sociali e umani: cosa Le ha trasmesso, come musicista e come uomo, l’incontro con la realtà storica dei profughi italiani che Lei ha intraveduto oggi nelle masserizie accatastate allora nel Silos?
Conoscere questa storia mi ha insegnato innanzitutto la grande dignità del popolo degli esuli e dei rimasti, che silenziosamente e con grande forza d’animo hanno ricostruito in qualche modo la loro vita, lontano dalla loro terra rubata. Il loro esempio ci aiuta a sentirci più “italiani”, nel senso più nobile del termine.
Patrizia C. Hansen
© ANVGD Sede nazionale
Simone Cristicchi in visita al Civico Museo della Civiltà Istriana Fiumana e Dalmata di Trieste
(foto cristicchiblog.net)