Quanti episodi della Storia d’Italia più o meno recente sono rimasti nell’oblio perché scomodi a qualche gruppo o fazione. I 186 caduti sul lavoro della miniera istriana dell’Arsa, morti in una catastrofe, per certi versi annunciata dai tecnici dell’epoca, il 28 febbraio del 1940, sono stati rimossi per anni e anni.
Il Circolo culturale “Istria” ha ricordato quei tragici fatti dell’area mineraria di Albona con un libro – “Arsia” – ora pubblicato pure in lingua croata. «Le vicende di confine hanno prodotto una rimozione sui morti dell’Arsa – affermano Livio Dorigo e Fabio Scropetta, rispettivamente presidente e vice presidente del Circolo Istria. Quei caduti sul lavoro sono stati considerati croati dall’Italia, italiani e per di più fascisti dai croati. In realtà tra il personale dell’impianto minerario – il più importante d’Italia al tempo, a dare occupazione a quasi 11.000 dipendenti – c’erano italiani, sloveni, croati e diversi immigrati da tutto il Nord Italia, dalla Sardegna e dalla Toscana. Lo scoppio del grisou che provocò la strage – continuano i due – fu causato dalla riduzione delle misure di sicurezza, fatto derivato dall’intensificazione della produzione causato dall’imminente entrata in guerra del Regno d’Italia». Il libro del Circolo Istria, pubblicato nel 2007, è oggi pubblicato pure in lingua croata. I suoi contenuti, il ricordo della tragedia dei poveri operai è stato condiviso da italiani e croati nell’ambito della riunione solenne del Consiglio Comunale di Arsia/Rasa svoltasi lo scorso 4 novembre nella località dell’Istria Croata. Assieme ai rappresentanti del Circolo Istria, il sindaco del paese Josip Pino Knapic, il sindaco di Albona Tulio De Metlika e diversi deputati della Regione istriana e personaggi della politica locale. «La volontà di collaborare assieme e di strappare quell’evento all’oscurità – dice Dorigo – è una testimonianza e un omaggio del cordoglio unanime per tutti quei morti. Un passo importante e coraggioso per superare contrapposizioni e per dare evidenza e dignità a coloro che vennero sacrificati in nome di quello che continuiamo a definire progresso».
Maurizio Lozei