In Montenegro il censimento rischia di aumentare le tensioni politiche poiché prevede domande sull'appartenenza nazionale ed etnica e sulla lingua parlata. I partiti di opposizione temono che a causa delle pressioni molta gente preferirà non indicare la nazionalità serba e il fatto di parlare questa lingua. Neanche i croati e il governo Kosor (foto) saranno immuni alla politicizzazione quando saranno chiamati in aprile a rispondere a 45 domande, talvolta molto personali, per esempio «se vivono in unione con una persona dello stesso sesso». Per fortuna non ci saranno riferimenti alle categorie di «profugo» o di «sfollato». Ma ci si chiederà comunque perché ogni anno nascono in Croazia 41mila bambini e si registrano 54mila decessi. Anche in Macedonia il censimento sarà organizzato in aprile. I questionari sono già stati preparati e le autorità di Skopje non prevedono problemi di carattere politico, poiché tutte le norme sono state rispettate, anche quelle sull'appartenenza religiosa e nazionale.
di Mauro Manzin
TRIESTE Il censimento delle popolazioni che si terrà quest'anno nei Balcani avrà un importante significato politico. L'aggiornamento dei dati demografici, economici e sociali avrà probabilmente conseguenze sui rapporti fra gli Stati e rischierà di riaprire vecchie ferite. Fornirà senza dubbio un'immagine statistica credibile. La prova numerica della pulizia etnica? È probabile. La ricomposizione confessionale della regione? Senza dubbio. Aiuterà ad adattare le liste elettorali alla realtà demografica? È possibile. Il censimento, previsto inizialmente per la Serbia in aprile, è stato rimandato a ottobre. A causa della mancanza di denaro nelle casse dello stato l'Unione europea ha dovuto aiutare finanziariamente Belgrado. Ma la Serbia prende tempo per rispondere alle richieste di Bruxelles, che chiede dati precisi sulle condizioni dei Paesi candidati all'adesione. E i dati che ne deriveranno non faranno piacere al potere. Probabilmente ricorderanno fatti spiacevoli che si è cercato di cancellare. Per esempio, il Paese deve fare i conti con il problema della la denatalità: ogni anno la Serbia perde fra 30 e 40mila abitanti, all'incirca una città in meno ogni anno. Il censimento metterà anche in evidenza il problema della fuga dei cervelli. E di fronte a un esercito di 700mila persone che vivono sotto la soglia di povertà può apparire cinico parlare del numero di case o di appartamenti. È facile immaginare la rabbia di questa gente contro i politici corrotti, i ricchissimi uomini d'affari e i loro accoliti. Nel Kosovo il censimento, che avrà luogo in aprile, sarà sicuramente molto interessante. Si tratta del primo vero censimento da 30 anni a questa parte, il primo dopo il bombardamento della Nato nel 1999. A differenza della Bosnia-Erzegovina la comunità internazionale insiste per un censimento che prenda in considerazione tutto il territorio, compresa la parte Nord dove la maggioranza serba si oppone a tutte le iniziative delle autorità centrali di Pristina. Sarà l'occasione sognata da accademici e storici serbi appassionati del Kosovo per ricordare che nel 1929 i serbi erano il 61% della popolazione del Paese, mentre nel censimento del 1981 gli albanesi erano il 77,48%. Temendo, a ragione, che molti serbi cacciati dal Kosovo non saranno censiti, Belgrado fa appello al boicottaggio, come avevano fatto gli albanesi in occasione del censimento del 1991, per non legalizzare la pulizia etnica dei serbi del Kosovo. Nel frattempo, in Bosnia-Erzegovina la classe politica non ha ancora trovato un accordo sull'operazione. A causa della paralisi del potere -la Bosnia-Erzegovina non ha ancora un governo – questo Paese potrebbe essere l'unico stato europeo a non organizzare il censimento. Di conseguenza continueremo a non avere statistiche precise sui cambiamenti della struttura della popolazione durante e dopo la guerra, così come sulle distruzioni di migliaia di edifici, di fabbriche e di scuole. I bosniaci fanno riferimento alle norme Eurostat e chiedono che il censimento non preveda domande obbligatorie sulla confessione, sull'appartenenza nazionale o sulla lingua parlata, ritenendo che questo non farebbe che legalizzare la pulizia etnica.