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Balcani, identità e androcentrismo (balcanicaucaso.org 23ago13)

I Balcani sono oggi il luogo più adatto, almeno in Europa, per studiare ex corpore vivo quella dimensione essenziale della vita e della politica che si può chiamare bisogno d’identità.

La terra balcanica, infatti, è storicamente attraversata da un’incontenibile esigenza d’identificazione. Si sente a fior di pelle, attraversando i confini di quelle che erano le repubbliche della Jugoslavia federale. I Balcani mostrano, nel corpo del territorio e dei suoi abitanti, con un’evidenza teatrale spinta fino alla tragedia, che l’identificazione – avere un’identità, essere qualcuno – è il più grande bisogno/desiderio umano, più forte della fame e della paura della morte. Un “tu sei” è alla base di ogni religione, di ogni forma di comunità, di collettività, di società, di utopia politica.

E mostrano anche, tipicamente, il carattere androcentrico (patriarcale, maschilistico) dell’identità, o piuttosto dei processi di identificazione. Essi tendono al mito di una forma fissa, identica a se stessa, come un’idea platonica: essere ‘identici’, essere sempre gli stessi, essere se stessi una volta per tutte. Una forma fissa è, in quanto tale, esclusiva e intollerante, imperniata sulla logica simile/dissimile.

Nella modernità assume due dimensioni: quella dell’individualismo proprietario, che consegna la relazione allo schema sociale del denaro – forma astratta di identificazione basata sul potere d’acquisto di merci vissute come specchietti identitari; e quella comunitaria, di tipo etnico/religioso, basata sull’appartenenza ad un gruppo unificato.

Di tale carattere androcentrico dell’identificazione è suggello lo stupro delle donne dei vinti del momento (o, come nell’Argentina della giunta militare, il furto dei neonati e l’assassinio delle madri). A me pare che riviva in tal modo l’elemento originario di ciò che chiamiamo potere: il controllo e il dominio della vita che passa attraverso il controllo e il dominio della donna, della riproduzione e della sessualità.

Il territorio balcanico è disseminato di simboli ed edifici religiosi delle varie confessioni cristiane e dell’islamica. È crivellato di tracce vistose delle incessanti guerre novecentesche, fra cui la guerra partigiana del ’43-‘45, di cui appaiono qua e là grandi e piccoli monumenti, spesso semiabbandonati; mostra impietosamente le ferite delle guerre che ne concludono il Novecento. È seminato di cimiteri, cattolici, ortodossi, musulmani.

La morte, per l’identità e a causa dell’identità, appare in ogni luogo. Nelle campagne disseminate di case distrutte. Fra le cupe valli delle montagne dove gente inseguita scappava in cerca d’inutile rifugio, nelle città dove il vicino ammazzava il vicino. Nei luoghi dei massacri, di ieri: il lager ustascia di Jasenovac; il museo-memoriale dello Srem Front; e di oggi: Srebrenica, che appare come la quinta teatrale dell’odio; Mostar, grottesco teatrino turistico della morte; Sarajevo, che fra le case crivellate di proiettili mostra una disperata vitalità – ma anche le altre città, percorse da folle di giovani, a Zagabria, come a Belgrado, a Kragujevac -, giovani che quasi sempre ignorano il passato: la vita è più forte della morte, ma è la vita delle collettività, delle società, degli insiemi, non dei singoli, che soffrono e muoiono senza redenzione e, prima o poi, senza memoria che non sia per alcuni – non per tutti – un nome e cognome s’un cippo.

Nell’antico cimitero ebraico sefardita di Sarajevo, luogo di cecchini durante i quattro anni dell’assedio, quasi tutte le foto delle tombe sono state scalpellate: estrema forma di annientamento dell’identità. Le pochissime scampate ci guardano attonite da un vuoto immemoriale.

L’annuale sepoltura a Srebrenica delle ossa degli uccisi nella strage del 1995, via via recuperate dalle fosse comuni, appare come la rappresentazione tragica in chiave musulmana, che rende la cerimonia di decine di migliaia di persone ancora più teatrale, dell’anima stessa dei Balcani. Non solo, di qualunque guerra, violenza, dominio – della civiltà stessa, così come la conosciamo. È facile essere pessimisti e rifugiarsi nella depressione. È facile essere ottimisti ed erigere davanti a sé una quinta di teatrino da guardare con il sorriso ebete dello spettatore a vita.

Entrambe sono forme quotidiane di ciò che la psicoanalisi chiama denegazione.

Non è facile accettare il datum che la vita è tragica perché dell’individuale sommerso non c’è salvezza. Un improbabile ma non impossibile futuro redento non può riscattare il dolore e l’abiezione dei passati, contrariamente a quel che pensava Benjamin. Il sentimento del tragico non è, però, disperazione. Tutt’altro. Voglio citare uno che su certe cose vedeva fino in fondo, Georges Bataille:

«La ‘comunicazione’ non può avvenire da un essere pieno e intatto a un altro: essa vuole esseri in cui si trovi posto in gioco l’essere – in loro stessi – al limite della morte, del nulla; il culmine morale è un momento in cui si mette in gioco, si sospende l’essere al di là di se stesso» [1].

C’è dunque qualcosa di tragico nell’atto stesso di entrare veramente in relazione con l’altro. E’ proprio ciò da cui l’identificazione ci salvaguarda, come una corazza e una prigione. L’incontro autentico – uso consapevolmente il termine di matrice heideggeriana – con l’altro è inquietante. Il termine mal traduce l’originale tedesco unheimlich, reso noto da Freud: senza Heimat, focolare, terra materna/paterna, luogo del familiare, del simile e dell’autentico (autòs), cioè del se stesso. L’identità vuole proprio la Heimat, una volta per tutte. E via chi non ne fa parte, perché ha un’altra faccia, un’altra religione, parla un’altra lingua. E se è uguale a me, ma non è d’accordo con me, via lo stesso! L’identità tende al solipsismo.

Il tentativo di mettere da parte le tensioni identitarie per mezzo dell’utopia di una società di lavoratori uguali, nella terra stessa delle guerre per l’identità, tentativo nato dalla più grande resistenza al nazismo – il tentativo estremo di fissazione biologica dell’identità –, è ricaduta pesantemente negli antichi odi, passando per l’edificazione di uno Stato autoritario. Non si tratta di un residuo arcaico. È qualcosa di radicato in un’antropologia originariamente costruita in forma di dominio androcentrico.

Da un punto di vista politico, il tragico è lo scarto fra il tempo dell’individuo – anzi: del singolo -, il tempo della storia e il tempo della vita. L’assunzione necessaria di questo scarto è ciò che consente di assumere pienamente l’imprevedibilità e la precarietà e di considerare l’invecchiare e il morire come esperienza piena del vivere, così come il venire al mondo.

[1] Cfr. Georges Bataille, Su Nietszche, Capelli, Bologna 1980, p. 63.

Gian Andrea Franchi
www.balcanicaucaso.org 23 agosto 2013

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